Quando si parla di sviluppo economico futuro si fa di continuo riferimento al concetto di economia circolare, vale a dire un sistema ecosostenibile capace di rigenerarsi in equilibrio e autonomia. Un concetto per molti “di moda” che appare assumere ancora più risonanza adesso che l’Italia si prepara a ripartire dopo il lockdown. Spesso, però, certe “invocazioni” non sono che sterili tam-tam da social media, privi di qualunque contenuto tecnico e reale sostenibilità.
L’economia circolare è invece un concetto prezioso che deve essere curato e difeso dalla retorica semplificativa e che richiede pertanto l’utilizzo di competenze specialistiche e puntuali verifiche. Ne ha parlato con LiveUnict il professore Giuseppe Mancini, docente del DIEEI in Chemical Plants del corso di laurea in Chemical Engineering for Industrial Sustainability.
Economia circolare in Sicilia: un ritardo da colmare
In questa corsa alla sostenibilità sono sempre più rilevanti le differenze tra Nord e Sud del mondo, riprodotte, nel piccolo, anche in Italia. “In Sicilia, nel Meridione in generale, l’approccio sostenibile è stato acclamato tanto negli anni – dichiara il professore –, ma solo a parole. Chi è stato chiamato a suggerire le linee guida a chi ci governa ha fatto prediligere soluzioni il cui risultato complessivo è sotto gli occhi di tutti: un enorme ritardo infrastrutturale che manifesta tutta la sua gravità anche in una disarmonica gestione dei rifiuti”. Ne è prova certificata il fatto che si è andati avanti con finti piani dei rifiuti che si traducevano solo in ampliamenti su ampliamenti di discariche, pubbliche e private.
“Lo testimoniano decenni di valori bassissimi di differenziata, con i sindaci tra i primi responsabili, in passato, della gestione insostenibile dei rifiuti”, spiega. Una motivazione giustificata dai maggiori costi della raccolta differenziata esasperati da una gestione già inefficace e clientelare, ma che ultimamente, con la maggiore sensibilità sul tema a livello globale, e “soprattutto grazie all’azione della Regione che sanzionando i comuni inadempienti ha prodotto un radicale ribaltamento economico” ha visto avviare il necessario circolo virtuoso (gli ultimi dati, pubblicati a inizio 2020 e aggiornati a settembre dello scorso anno, presentano una percentuale media che sfiora il 40% di rifiuto raccolto).
“Lo sostanziano anni di monotematismo non solo infrastrutturale, ma anche culturale – commenta ancora il prof. Mancini.
“Si parlava e si parla ancora di differenziata (oggi aggiungendo la rima con economia circolare), come se la differenziata potesse di per sé risolvere magicamente tutti i problemi – continua il docente –. Le strade secondarie extraurbane del nostro territorio e i conferimenti annuali in discarica raccontano un’altra verità”. Dall’altro lato c’è la normativa UE, che prevede che entro il 2035 si potrà portare in discarica solo il 10% dei rifiuti totali. Oggi in Sicilia, invece, stando a quanto afferma il docente, le percentuali smaltite si aggirano ancora intorno al 70% o poco meno.
In realtà, se si guardasse bene dentro ai modelli di Paesi che storicamente hanno costituito l’immaginario collettivo sulla RD per i siciliani, come la Svizzera, ci si renderebbe subito conto che la differenziata è sì un aspetto fondamentale, ma all’interno di un sistema integrato che prevede la gestione di tutte le componenti di rifiuto, anche di quella che non può essere sostenibilmente riciclata.
Per quest’ultima i destini finali sono tre. Nell’ordine: recupero energetico (la Svizzera), discarica (la Sicilia) e il trasporto fuori regione (la Sicilia domani?). Per inciso, la terza è la peggiore delle opzioni per l’ambiente e per l’economia isolana”.
La gestione dei rifiuti in Sicilia: necessaria la “biodiversità industriale”
Al momento, il sistema previsto per la gestione dei rifiuti in Sicilia si basa su due tipi prevalenti di impianti: la discarica – che assorbe la maggiore quantità – e il compostaggio, cui si affiancano alcuni impianti di selezione del secco riciclabile (prevalentemente plastica). Questa condizione presenta tre grandi criticità: 1) l’abnorme ricorso al compostaggio, 2) l’assenza di alcun recupero energetico sia per la frazione organica che per quella residuale (non avviabile a riciclo) e 3) la mancanza di aziende sul territorio che trasformino, valorizzandolo in loco, quanto raccolto e selezionato in nuove materie prime da re-immettere sul mercato.
“Il compostaggio non permette di ottenere una buona percentuale di recupero rispetto al rifiuto di partenza (meno del 20%) – spiega il docente – ma soprattutto richiede ossigeno, con rilevante consumo di energia elettrica – l’energia più ‘nobile’ e costosa –, con ciò producendo molta CO2 (diretta e indiretta) e dando vita alla fine ad un materiale – il compost- che sul mercato vale solo 5- 6 euro a tonnellata, quando va bene”.
L’alternativa c’è ma non si è scelta: il sistema di digestione anaerobica, che, attraverso la trasformazione dell’umido in assenza di ossigeno, non solo può sostanzialmente produrre lo stesso compost finale, evitando però il costo dei compressori, ma anche un biogas da valorizzare energeticamente. “Si inverte completamente il bilancio. Invece di avere un consumo di energia elettrica e doppie emissioni di CO2 si ha produzione di energia sotto forma di biogas da upgradare a biometano, con un doppio vantaggio economico e ambientale”, aggiunge il docente.
I più maliziosi e/o privi di competenze, però, obietterebbero che un tale sistema è più complesso rispetto a un impianto di compostaggio. Tuttavia, il nocciolo del problema risiede come sempre nel corretto posizionamento e dimensionamento degli impianti. Sotto questo profilo, mentre il compostaggio può anche andar bene per qualche piccolo e isolato comune le cui quantità prodotte non renderebbero sostenibile una digestione anaerobica autonoma, quest’ultima è invece molto più sostenibile se si guarda a consorzi di comuni e grandi città.
La gestione del rifiuto residuale: per un’economia circolare davvero sostenibile
Parlare di sostenibilità vuol dire poi non nascondere sotto il tappeto (o il terreno se si vuole) il rifiuto non riciclabile. Ne è fermamente convinto il professore Mancini, che sottolinea gli aspetti tecnologici e soprattutto culturali del ritardo in Sicilia.
Non tutto il rifiuto è fisicamente riciclabile, e anche parte di quello che in linea teorica sarebbe riciclabile pone di fronte ad una scelta di buon senso. “Bisogna riciclare tutto quello che è possibile, ma in maniera sostenibile – aggiunge il docente –. Recuperare tutta la plastica all’interno di un rifiuto è forse possibile dal punto di vista tecnologico (certo non all’infinito) ma non economico né tantomeno ambientale. La quantità di risorse ed energia da introdurre per ottenere questo risultato estremo è insostenibile. Sarebbe come ostinarsi a estrarre del metallo dal filone di una miniera quasi esaurita. Bisogna saper stabilire fino a quando il gioco continua a valere la candela, tenendo conto del consumo di energia e delle emissioni nel loro complesso, ma anche del mercato dei prodotti”.
Che fare, quindi, dell’indifferenziata e del materiale di scarto del riciclo? “La soluzione stabilita ad oggi in Regione per questa rilevantissima frazione è purtroppo chiara, almeno per come delineato nel recentissimo e criticato piano regionale dei rifiuti. Discarica e solo discarica. Due delle più grandi sono proprio nel catanese e hanno ricevuto durante i continui periodi emergenziali i rifiuti provenienti dall’intero territorio siciliano con uno squilibrio economico ma anche ambientale tra le diverse aree del territorio regionale. Senza le discariche avremmo avuto certamente una grave emergenza ambientale; ma per quanti anni ancora si potrà continuare a basare il sistema sullo smaltimento in discarica? I primi a chiederselo e a dare risposte pragmatiche sono proprio i gestori privati perché viaggiano, si informano e provvedono in anticipo. La loro competenza, al pari di un qualunque altro imprenditore, andrebbe messa a servizio della regione, non criminalizzata.
La soluzione ben più sostenibile si chiama in tutto il mondo termovalorizzazione e solo da noi è ancora ‘inspiegabilmente’ osteggiata”. Sistemi che ad altri consentono di estrarre enormi quantità di energia elettrica e termica dai rifiuti non altrimenti avviabili a riciclo e che soprattutto hanno anche raggiunto il recupero (come materiale da costruzione) del 95% dei residui di combustione, chiudendo così veramente il ciclo e relegando finalmente la discarica al suo ruolo residuale (meno del 3%, come in Germania e tutti i principali Paesi del Nord Europa).
“C’è però una continua e strumentale polemica intorno a questi impianti, gonfiata da assunzioni infondate di riciclabilità totale del rifiuto e da paure, altrettanto ingiustificabili, che – nei fatti – avallano sempre e soltanto ampliamenti delle discariche – conclude il docente -. Ma quando si manda in discarica il 70% oggi – e il 40% (con grande ottimismo) domani – l’economia circolare rimane e rimarrà solo uno slogan che avrà forse favorito la carriera di qualche finto ecologista anti-inceneritore, ma certo avrà impedito l’importante recupero di energia, avrà aumentando gli impatti complessivi per il territorio e i cittadini e avrà precluso all’economia circolare siciliana di riempirsi di vero significato attraverso quel aggettivo troppo spesso trascurato: sostenibile”.