Indice
Quest’anno la stagione della produzione dell’olio extravergine di oliva in Sicilia si è aperta con un turbolento ciclone, che ha causato gravi disastri soprattutto nel settore agricolo. Nonostante ciò, non tutto il raccolto è andato perduto e molti braccianti hanno potuto usufruire di quel raro dono che solo le olive italiane sono in grado di dare: l’olio extravergine.
La storia dell’oro verde
Quella dell’oro verde è una delle tradizioni più longeve di tutti i secoli: sembrerebbe, infatti, che l’uso dell’olio si sia diffuso intorno al 4000 a.C., inizialmente in Asia, precisamente nelle odierne Palestina e Armenia. Dall’Asia è arrivato in Europa grazie ai Fenici, che da bravi commercianti, diffusero questo prodotto nel Mediterraneo. I Greci non ne poterono fare a meno e iniziarono a coltivare gli alberi di ulivo per avere una produzione propria, senza doverlo acquistare da altri popoli. I Romani, invece, furono i primi a studiare le varietà dei frutti di questi alberi, distinguendo varie tipologie di spremiture.
Nel corso del ‘900, il mondo agricolo ha subito una trasformazione. In Italia, soprattutto dopo il boom economico, molte città, che prima erano campagne, iniziarono ad alzare palazzi di cemento, poiché economicamente più redditizi, abbandonando così le attività nelle campagne. Anche Catania partecipò attivamente al fenomeno della speculazione edilizia. Ma come si raccoglievano le olive alle pendici dell’Etna?
La raccolta dagli inizi del Novecento
L’evoluzione delle pratiche di raccolta può essere divisa in tre generazioni. La prima generazione (che si data tra gli inizi del ‘900 fino agli anni ’50) provvedeva alla raccolta in modo arcaico. I contadini, piazzati sotto l’albero, riponevano le olive all’interno del cosiddetto “panciotto”. Quest’ultimo era un camice senza maniche che si indossava dalle spalle e che cadeva a sacco sulla pancia. Era cucito dalle mogli o dalle madri, ricavato da pezze o tessuti dismessi.
Dove gli operai non arrivavano con le scale di legno, poiché i rami erano deboli per tenerne il peso, si usava un bastone lungo, spesso procurato in natura o in loco, detto “caramazzo”. Il caramazzo veniva battuto contro i rami per far cadere a terra i frutti. Non esistevano ancora le tende, né le cassette e dal panciotto il raccolto veniva depositato nei sacchi di juta, che ab origine erano utilizzati per contenere i chicchi di caffè. La raccolta delle olive, dunque, avveniva in modo ecologico e sostenibile, riutilizzando ciò che prima era già stato usato per altri scopi. I contadini della prima generazione raccoglievano le olive indiscutibilmente dopo le festività dei morti e la raccolta poteva prolungarsi fino all’epifania.
La seconda generazione, invece, è quella che sostituì l’uso dei panciotti con le tende di nylon, molto più comode e pratiche, che velocizzarono di gran lunga i tempi del lavoro. Infatti, le olive cadevano a terra dall’albero per mano umana, o del caramazzo o del pettine, uno strumento di plastica dura che si passa tra i rami dell’ulivo come un pettine tra i capelli. I sacchi di juta furono sostituiti dalle cassette di plastica, che evitavano di schiacciare le olive durante il trasporto, a differenza degli stessi sacchi. Molti braccianti ancora oggi usano queste pratiche durante la stagione.
L’ultima generazione è la terza, ed è quella che ha introdotto l’utilizzo di tecnologie agricole specializzate, in modo da velocizzare ancora di più la raccolta. Oggi nel mercato c’è anche una vastità di scelta di attrezzi elettrici adatti; tra questi bisogna ricordare l’abbacchiatore, lo scuotitore e l’aspiratrice. Tutti e tre spesso sostituiscono la raccolta manuale dall’albero impiegando meno tempo.
Ai giorni nostri la raccolta per produrre l’olio extravergine inizia già da metà ottobre per via dei cambiamenti climatici, che fanno maturare le olive prima rispetto a 50 anni fa. Per molti coltivatori il vero olio extravergine è quello che nasce dalla spremitura delle olive che arrivano alla maturazione al 60-70%, e, quindi, non in maniera totale. Questa scelta è dettata anche da altri tipi di fattori, come la qualità finale dell’olio. Infatti, se si aspetta troppo tempo per effettuare la raccolta e il clima autunnale fa la sua parte con piogge e temporali, l’oliva non matura raccoglie in sé tutta l’acqua e si gonfia fino a maturare. Ma in fase di spremitura l’acqua viene separata dal prodotto e non aumenterà la quantità dell’olio finale, ma potrebbe incidere sulla sua qualità. Le olive dette “grosse” sono ideali per farle “scacciate”, cioè da mangiare come antipasto.
La “forte”, la “nuciddara” e la “mucatano”
Si distinguono tipologie diverse di olive, ma quelle più comuni nel nostro territorio sono tre:
- L’oliva “forte”: l’oliva bianca che ha un’alta resa in fase di spremitura;
- L’oliva “nuciddara”: è l’oliva nocellara ed è bianca a forma rotonda;
- L’oliva “mucatano”: l’oliva nera che ha una resa alta durante la macina.
La spremitura delle olive avviene nei frantoi, che usano particolari macchinari la produzione dell’olio. In una prima fase l’oliva viene lavata e separata da rami e foglie e defluisce in un vasto contenitore dove delle lamelle meccaniche provvederanno a macinarle. In gergo il luogo dove avviene la spremitura si chiama macina. Una macina di olive corrisponde a 240 kg, che, calcolati in cassette sono circa 12-13, considerando che ogni cassetta può contenere tra i 20 e i 23 kg. La spremitura può avvenire a caldo o a freddo, a seconda della tipologia dei macchinari impiegati dallo stesso frantoio.
Quella più vecchia è la macinatura a caldo: la temperatura dell’oliva si alza notevolmente durante i vari processi che conducono alla fuori uscita dell’olio. La spremitura a freddo, invece, è la più moderna: l’olio si mantiene sotto i 27° gradi. Secondo una normativa europea, la macinazione a freddo garantisce una qualità maggiore dell’olio, a differenza della spremitura a caldo che consente lo sviluppo di sostanze inorganiche che dovrebbero essere espulse ma si attaccano al liquido. Quest’ultima garantisce una resa maggiore.
Durante la macinazione molte parti dell’oliva vengono espulse: tra queste c’è la già citata acqua e “l’olio di sanza”. L’olio di sanza racchiude parti ben precise dell’oliva, quali la buccia esterna e il nocciolo interno. I frantoi si occupano di separare e smaltire questo rifiuto. Qualche decennio fa, l’olio di sanza si portava in apposite raffinerie e veniva rimacinato per produrre un olio più leggero e qualitativamente più scarso, ma allo stesso più adatto ad un uso commerciale di larga scala. L’ulteriore scarto della macinazione dell’olio di sanza si usava come combustibile energetico per le caldaie.
A fine spremitura, oggi l’olio viene raccolto dai produttori nei bidoni di plastica o nelle damigiane di vetro. L’olio si misurava in cafiso, cioè 16 kg, e tradotto in litri equivale a 17 litri. Per misurare l’olio vi era un’apposita bilancia, chiamata in dialetto “bescuglia”: si trattava di una bilancia bascula. Su di essa venivano posti i contenitori di olio, che erano delle caraffe in lega di alluminio: ne esistevano di quattro misure: una che misurava il cafiso e mezzo, un’altra il cafiso, una il mezzo cafiso e quella più piccola misurava il quarto di cafiso. Il cafiso era l’unità fondamentale per capire quanto avevano prodotto le olive. Ad esempio, se da una macina di olive fuoriuscivano due cafisi, si diceva che l’olio era andato a due. Quindi il numero dei cafisi prodotti dettava la resa.