“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Questo è quanto recita l’articolo 1 della Costituzione Italiana, documento normativo sul quale si basano i principi fondamentali e le leggi della Repubblica, ribadendo l’importanza del lavoro nella vita di ogni cittadino.
Tuttavia negli ultimi anni, in un mondo che corre a ritmi infinitamente veloci rispetto al passato, si sente sempre più spesso parlare di temi come l’equilibrio tra lavoro e vita privata o di attenzione alla salute mentale. E sono tanti coloro i quali chiedono a gran voce un cambio di direzione riguardo le priorità della vita quotidiana, per non fare del lavoro la principale ragione di vita di ogni essere umano.
L’emergenza nel settore sanitario
Se da un lato si inizia ad avere una maggiore consapevolezza su questi temi, soprattutto da parte delle nuove generazioni, dall’altro è come se agli occhi del mondo alcune categorie di lavoratori non venissero toccate da simili problematiche, riassunte nel termine “burnout”.
È il caso dei medici, infermieri e operatori del settore sanitario, ai quali sembra quasi non essere concesso provare le sensazioni di esaurimento o stress da lavoro lamentate da tante altre categorie. Il tutto sebbene si tratti di dipendenti di un settore in crisi da tempo per carenza di risorse, di personale e, sempre più spesso, di sicurezza.
Basti pensare ai casi di aggressioni al personale sanitario: secondo il Rapporto Fnomceo-Censis, sono stati 18.213 gli operatori sanitari coinvolti in episodi di violenza in un anno, tra 2023 e 2024. E stando ai numeri di un’indagine sulle aggressioni al personale sanitario di Amsi, UMEM e Movimento Uniti per Unire, dal 1° gennaio 2025 al 31 marzo si sono registrati 6483 episodi di violenza. La media è di 2161 aggressioni al mese, con la Sicilia al quinto posto tra le regioni italiane per incremento di casi nel primo trimestre del 2025 rispetto al 2024.
Il caso dei pronto soccorso
In particolare, i pronto soccorso sono i luoghi in cui si verificano la maggior parte delle aggressioni. Complici il contatto diretto con il pubblico, la preoccupazione di pazienti e accompagnatori, la necessità di agire d’urgenza anche se con scarsi mezzi, il personale dei pronto soccorso è tra i più a rischio.
A riprova di ciò, secondo un’indagine di Simeu, Società di medicina dell’Emergenza-urgenza, il 10% degli intervistati lascerebbe seduta stante quell’ambiente di lavoro. E questa situazione, insieme ai ritmi stremanti ha portato il 64% dei medici di pronto soccorso a dichiarare di aver cambiato atteggiamento nei confronti dei pazienti e il 78,4% a dichiarare di sentirsi a rischio burnout per il troppo lavoro.
L’epilogo di ciò non può che essere un peggioramento generale del servizio e un fenomeno sempre più frequente noto come “great resignation”, che si traduce in “grande fuga” o “grandi dimissioni”, indicando la difficoltà sempre maggiore di reclutare nuovo personale e trattenere chi è già in servizio. Come riportato nel 3° Rapporto sulla Salute e il Sistema Sanitario di Eurispes ed Enpam, secondo le stime di Anaao nel 2022, in pochi anni il Servizio Sanitario Nazionale ha perso circa 21mila medici specialisti.
“Insulti, minacce e ho rischiato di essere picchiata”: le parole di un medico catanese
A sottolineare quanto questo tema sia rilevante e attuale, la testimonianza di un medico in formazione specialistica presso l’Università di Catania che ha deciso di lasciare il posto di lavoro in un ospedale catanese al terzo burnout. Un’esperienza che non appare più tanto isolata, a fronte dei dati estrapolati dalle statistiche già citate.
“Al mio quarto anno di formazione decisi di partecipare a un concorso pubblico per l’incarico da Dirigente Medico ed iniziare a lavorare in pronto soccorso – racconta il medico in formazione presso Unict –. Ero quasi alla fine del percorso universitario: pensavo di cominciare ad approcciarmi al mondo del lavoro e assicurarmi un posto pubblico nella mia specialità medica”.
“Ho ottenuto il posto, iniziando a lavorare con molte aspettative: tutto ciò che avevo imparato durante il mio percorso volevo usarlo per salvare vite e dare un forte contributo, guadagnando il rispetto dei colleghi più grandi e dei pazienti – le parole del medico catanese –. Molto presto mi accorsi che erano soltanto illusioni e che il pronto soccorso, o più in generale la sanità, è un mondo fatto di lupi dove sopravvive chi è più furbo”.
La specializzanda racconta del costante rischio di essere aggredita da pazienti e accompagnatori che in alcuni casi pretendevano di fare analisi di routine in pronto soccorso. “Una notte ho rischiato di essere picchiata dal marito di una paziente che aveva fatto accesso in pronto soccorso per un’intossicazione alimentare – racconta il medico in formazione presso Unict –. A suo dire, i tempi di attesa erano troppo lunghi. Esistono delle priorità, ma per alcuni è troppo difficile da capire. Così si passa alle minacce o agli insulti”.
A ciò la specializzanda ha aggiunto il pregiudizio sia da parte degli utenti che dei consulenti dovuto alla sua giovane età o al fatto di essere donna, con l’aggravante di un atteggiamento irrispettoso e prepotente come se tutto fosse dovuto. Di fronte a una simile situazione, il medico catanese racconta di aver iniziato a provare un senso di frustrazione e impotenza.
“Anche i consulenti mi trattavano da ragazzina inesperta, l’ultima arrivata senza esperienza – racconta il medico in formazione –. Capitava di chiamare di notte i colleghi reperibili per casi clinici complessi e la maggior parte delle volte venivo insultata per averli disturbati, perché è più comodo lasciare i pazienti in pronto soccorso che ricoverarli. I pazienti non hanno idea di quante volte abbia litigato con i consulenti per ricoveri ai quali si opponevano”.
“Quasi ogni giorno si verificava un litigio – dichiara il medico catanese –: con i pazienti o con i loro parenti, oppure con i consulenti che invece di agevolare cercavano di fare i loro interessi. In molti mi dicevano che per fare questo lavoro bisogna fregarsene, ma io ci tengo a svolgere il mio lavoro in modo preciso e impeccabile”.
Il burnout: “Salvare vite è la mia missione ma il lavoro è diventato il mio incubo”
“È così che è arrivato il primo burnout, poi il secondo ed infine il terzo – racconta la specializzanda catanese –. Non avevo mai chiesto aiuto perché volevo superarlo da sola. Salvare vite è la mia missione e non potevo fallire. Tuttavia, con il tempo il lavoro è diventato il mio incubo”.
Il medico racconta del disagio provato al pensiero di andare al lavoro, della pressione e dell’ansia ancora prima di varcare le porte del pronto soccorso. “Ho cominciato a soffrire di insonnia, e questo impattava molto sulle mie prestazioni a lavoro – dichiara –. Spesso ero così stanca da non riuscire a concentrarmi. Ero impulsiva, irascibile, nervosa, ogni occasione era giusta per arrabbiarmi e rimuginare su quanto successo durante il turno: dalla risposta sgarbata di un collega al comportamento maleducato di un paziente. Era diventata un’ossessione. Non ero più io: stavo diventato una persona e un medico che non riconoscevo più”.
Tra i primi cambiamenti avvertiti dalla specializzanda, la percezione di diventare una persona cinica e apatica, campanelli di allarme del burnout.
“Tutto era diventato troppo. Non sopportavo più niente e nessuno – racconta il medico catanese –. Ho pensato di mollare la specializzazione e persino la medicina perché non sentivo più mia quella missione. Ho cominciato a pensare di essere io quella sbagliata, di non essere in grado di adattarmi o di accettare le cose per quelle che sono. E forse è anche così, perché mi hanno insegnato ad oppormi e alzare la voce quando qualcosa è sbagliato”.
Le dimissioni: “Ho lasciato il lavoro per salvare la mia vita”
Nel quadro descritto, il medico catanese sottolinea come un caso particolare abbia rappresentato un momento di svolta nel suo percorso lavorativo.
“Un giorno come un altro, il mio migliore amico venne portato in pronto soccorso con lo sguardo perso nel vuoto e un mal di testa che sembrava squarciargli il cranio – racconta –. Era pallido, confuso, sudato. Quasi comatoso. Non sembrava più lui. Non riusciva a parlare e tenere gli occhi aperti. Lo guardai e sentii un nodo stringermi lo stomaco. Avevo visto mille volti in quella condizione, ma quel giorno era diverso. Quello era mio fratello, anche se non di sangue”.
La specializzanda racconta di aver capito che si trattava di qualcosa di grave. “Pensai subito alla meningite. Il quadro clinico gridava in quella direzione: chiesi una RMN encefalo e una rachicentesi. Interventi urgenti, indispensabili per salvare la vita di un paziente appena trentenne. Ma, come sempre, ho dovuto lottare per ottenere il minimo”.
“Alla fine, la diagnosi venne confermata e posso dire di essere riuscita a salvargli la vita – racconta il medico –. Grazie al supporto del mio ex primario, sono riuscita a farlo ricoverare la sera stessa per ricevere le cure che hanno evitato il peggio”.
Ma un’esperienza così forte ha lasciato i suoi segni. “Quel giorno è stata l’ultima goccia – dichiara il medico in formazione presso Unict –. Decisi che non potevo né volevo più accettare un sistema che mi costringe a lottare con i miei stessi colleghi per fare il mio lavoro, dove ogni diagnosi è un braccio di ferro, o bisogna gridare per salvare qualcuno”.
Una volta rassegnate le dimissioni, con collera e dispiacere, la specializzanda racconta di essersi sentita rifiutata e svuotata da un sistema in cui aveva riposto fiducia e speranza. “Ho mollato non perché ho smesso di voler salvare vite, ma perché non voglio più dover combattere per farlo – le parole del medico –. Ho dovuto farlo per salvarmi. Quel giorno ho deciso di salvare la mia vita”.
“Il mio primario e i miei colleghi di pronto soccorso mi hanno aiutata ad affrontare questa spiacevole vicenda – racconta il medico specializzando – e per questo li ringrazierò sempre. Per la collaborazione, la comprensione e l’aiuto datomi”.
Un epilogo dal sapore dolce-amaro: dolce per il senso di amor proprio e consapevolezza dimostrato dal medico catanese nel compiere un passo non da poco per poter stare bene. D’altro canto, va sottolineata l’amarezza di un sistema che porta un giovane medico a inizio carriera a lasciare il tanto agognato posto pubblico per le mancanze di un sistema che non funziona.
Una realtà dei tanti pronto soccorso e ospedali in Italia, condizionata da risorse e personale limitati, dove molti giovani decidono di immolarsi per inseguire un sogno, per poi scontrarsi con aggressioni, turni massacranti e burnout che li portano a mollare o esplodere.
E se in una storia simile si può usare la parola “fallimento”, non è certo per descrivere la scelta di un medico di lasciare il lavoro che ama. Il vero fallimento è il declino di un sistema che invece di spronare i giovani e sfruttare la loro energia e voglia di fare, li porta verso una concreta diagnosi di esaurimento e disillusione.