Al momento il bollettino riguardante il Coronavirus in Italia riporta un totale di 650 casi. Il nostro è il terzo Paese al mondo per numero di contagiati, dietro soltanto alla Cina e alla Sud Corea. In questo contesto, da un giorno all’altro gli italiani si sono ritrovati isolati. Al momento sono in tutto dodici i Paesi che hanno deciso di bloccare l’ingresso agli italiani per paura del contagio, tra cui Israele e Arabia Saudita, mentre molti altri hanno preso precauzioni per chi arriva dal Belpaese. In Germania, invece, il secondo stato europeo per numero di contagiati, i casi di Coronavirus si fermano a qualche decina. Eppure, dalla Bassa Sassonia arriva una storia che fa riflettere su alcuni dei perché di questa forbice così larga.
A raccontarla è A. S., una ragazza triestina che studia e lavora a Gottinga, una delle tante fuorisede che ha scelto di costruire il proprio futuro all’estero, mantenendo comunque i propri legami con l’Italia. A. è di recente rientrata da una settimana di vacanze a casa, dal 16 al 23 febbraio, nel corso della quale ha passato due giorni tra Treviso e Venezia, in Veneto, seconda regione per numero di contagiati. In un contesto simile sembrerebbe normale, malgrado non abbia sintomi, procedere a un controllo, ma rientrata in Germania la richiesta di un test tampone si è rivelata un’impresa impossibile.
I problemi sono cominciati quando, dopo aver parlato con la responsabile dell’albergo per cui lavora e averle detto di essere stata in una delle zone di contagio, su richiesta di quest’ultima ha provato a contattare un medico per capire la procedura da seguire. Una normale telefonata, tuttavia, sembra un obiettivo difficile da raggiungere. Il medico curante non ha reso disponibili i recapiti telefonici, né ha avvisato che l’ambulatorio quel giorno sarebbe stato chiuso. A., quindi, ha provato a ottenere informazioni dall’Uniklinikum di Gottinga, l’ospedale universitario, il più grande in città, dove tuttavia viene rimandata a un centralino emergenze, che a sua volta la rimanda a un altro numero. Dall’altro capo del telefono dovrebbero esserci dei medici in linea con cui poter parlare, ma anche questo si rivela un buco nell’acqua.
La soluzione ai continui rimpalli arriva quando la studentessa decide di recarsi personalmente nel centro medico che avrebbe dovuto chiamare e scopre che, in realtà, lo stesso era chiuso e che avrebbe dovuto contattare un’altra dottoressa. “Risponde la segretaria, che è arrivata ad avere un panico allucinante, mi ha trattata come se avessi la lebbra – dichiara al riguardo di questo primo contatto -. Mi fa: ma adesso dove sei? Allora devi stare rinchiusa a casa, noi ti mettiamo in malattia e devo verificare con la dottoressa cosa fare“.
“Pensavo che ci fossero dei controlli della malattia – aggiunge – e ho chiesto informazioni. Indifferentemente da dove tu sia, mi ha detto come un’ossessa, l’importante è che stai al chiuso e non abbia contatti con altri. Non è uno scherzo, qua non sappiamo cosa fare con questa situazione, e così via. Ho chiesto allora se fosse possibile effettuare un check, ma mi è stato risposto che non erano attrezzati per fare i test”.
La conversazione continua circa un’ora dopo, quando la segretaria richiama in totale paranoia: “Adesso dove sei? Sei a casa tua o del tuo ragazzo? Dove sei stata in questi altri giorni? Se vuoi fare un check, gli strumenti li hanno solo all’Uniklinikum”, precisa in seguito, dopo aver specificato che sarebbe stata messa in malattia fino a domenica e dopo che il suo caso è stato inoltrato all’Ufficio Sanità della cittadina. Quando quest’ultimo la contatta, da caso d’isolamento A. passa all’improvviso a non dover più svolgere il test. La ragione? La studentessa non presentava sintomi ed era stata solo in Veneto e non nel lodigiano, in Lombardia, regione-focolaio del contagio, quindi non c’era bisogno del check. Inoltre, “l’assicurazione sanitaria, qualora decidessi di fare il test, non coprirebbe i costi. Se vuoi farlo devi rivolgerti al laboratorio di un’azienda privata e chiedere di effettuarlo”, aggiungono dopo. Un laboratorio, quindi, che non si riferisce all’Uniklinikum nominato in precedenza.
Il costo del test è, scopre, di 130 € e per farlo avrebbe dovuto rivolgersi a un medico e ottenere un campione da fare analizzare. L’azienda per cui lavora, tuttavia, rifiuta di coprire i costi per il test. “La cosa che ho trovato ancora più scandalosa – aggiunge a proposito dei tentativi di ottenere dei controlli – è stato il fatto che quando ho richiamato la dottoressa per chiederle quanto avrei dovuto attendere per conoscere i risultati del test, mi è stato detto di rivolgermi al laboratorio privato, che ha dei medici competenti per svolgerlo”, mentre dallo stesso laboratorio la rimandano al mittente: “Noi non abbiamo medici, devi convincere il tuo medico curante a farti il test e poi portarlo qui per farlo analizzare”.
A questo punto, la studentessa sbotta: “La situazione è stata paradossale. Io devo ritrovarmi a convincere un medico a fare un test per prevenzione della salute degli altri concittadini tedeschi? La dottoressa mi ha dato la sensazione che non volesse effettuare il test. Mi ha chiesto: ‘perché vuoi fare il test se ti è già stato detto che non sei stata in una zona a rischio? Che poi, guarda, con te tra una cosa e l’altra abbiamo perso più di un’ora a parlare e io sono piena di ospiti e gente che ha bisogno di me. Se vuoi proprio fare il test, vai domani nella tua Praxis, l’ufficio dove c’è il tuo medico, e te lo fai fare da loro”.
L’epilogo della storia è che adesso A. ha dei giorni liberi dal lavoro fino a metà della prossima settimana, malgrado sia tornata il 23 febbraio e il virus abbia un tempo di incubazione variabile fino a due settimane. Inoltre, solo ieri il medico curante le ha finalmente spiegato qual è la procedura esatta che avrebbe dovuto seguire per aiutare a prevenire il contagio: “L’Uniklinikum sarebbe stato responsabile solo qualora avessi avuto dei sintomi. Poiché non ho dei sintomi, c’è questa azienda esterna che si dovrebbe occupare di fare i test. In realtà, però, la dottoressa mi ha detto che l’azienda ha dei dottori e ha una camera isolata dove vanno fatti i test. Il problema è che loro avevano detto di non averne”. Inoltre, la stessa dottoressa dà alla studentessa triestina delle spiegazioni che rendono conto del suo rifiuto: “Qualora io fossi risultata positiva, la dottoressa avrebbe dovuto chiudere il suo ambulatorio e non se l’è sentita, perché non è il suo ‘dovere'”.
Il caso della ragazza triestina rientrata in Germania non dimostra nulla, essendo unico, ma spinge di certo a riflettersi e a valutare il numero dei casi in Italia e le misure prese nel nostro Paese per contenere l’epidemia in rapporto a quelle prese dagli altri stati europei.