Siamo sinceri: chi non si è mai ritrovato, almeno una volta nella vita, a fantasticare di entrare in possesso di una grande ricchezza? Magari vincendo la lotteria, o giocando un gratta e vinci, oppure diventando gli unici eredi della ghiotta fortuna di un parente lontano e mai conosciuto. Il sogno di vivere come dei pascià ha da sempre accesso la fantasia umana, volgendo, qualche volta, un innocuo desiderio in una vera e propria smania di ricchezza.
Cercatori d’oro, cacciatori di tesori: la storia pullula di personaggi alla ricerca di illimitati possedimenti, veri o fantomatici. Non è un caso, quindi, se nei secoli si sono susseguite e sempre più alimentate leggende e voci popolari riguardanti fortune nascoste, ricchezze protette da incantesimi, grotte ricolme di monete e gioielli. E la Sicilia, probabilmente più di ogni altro luogo, può vantare una lunga lista di storie sulle cosiddette “truvature”, tesori nascosti e, il più delle volte, legati indissolubilmente a magia e incantesimi
Tra queste, si può annoverare quella della Grotta d’Anzisa, leggenda secondo la quale una grande mole di monete d’oro, ritrovate quasi per caso, andarono ad arricchire un umile stalliere.
Grotta d’Anzisa e i due avidi cacciatori
Nei pressi di Villarosa, in provincia di Enna, leggenda narra che fosse ubicata una caverna e che al suo interno si celasse una ricchezza da far gola a molti. La storia ha inizio con un re, il quale, a detta del mito popolare, viveva e governava su una città posta sulla sommità del monte Giurfo e al di sotto del quale si estendeva una fiorente vallata, che assicurava il benessere del suo popolo. La serenità di quel piccolo regno, tuttavia, era minacciata dal vicino nemico, il re Porco, che ambiva a impadronirsi delle ricchezze del reame rivale. Temendo i piani del nemico, il sovrano ordinò che fosse scavata una profonda apertura nella roccia e che vi fossero posti tutti gli averi preziosi.
Il tesoro rimase lì celato per molti secoli, fino a che, un giorno, due cacciatori, venuti dalla vicina Calscibetta in cerca di conigli, non vi s’imbatterono casualmente. Dopo aver fatto intrufolare il proprio furetto all’interno di quella che avrebbe poi preso il nome di Grotta d’Anzisa, attesero che l’animale tornasse indietro con le prede, ma questo non accade. Non solo, il furetto stesso non riapparve in superficie. Pertanto, desiderosi di riprendersi l’animale, i due scavarono la roccia e si trovarono davanti uno spettacolo inaspettato e meraviglioso: monete d’oro a non finire.
Caricarono il bottino sulle mule, che avevano preso in prestito da uno stalliere abitante ad Anzisa, di nome zio Toni, e si avviarono sulla via del ritorno. Essendosi fatto buio, però, decisero di accamparsi per la notte, mangiarono e si addormentarono. Svegliati da lancinanti dolori allo stomaco, si accusarono a vicenda di aver avvelenato l’altro, così da poter essere l’unico proprietario di quell’ingente fortuna.
Entrambi morirono e le mule, stanche di aspettare, percorsero da sole il tragitto che le separava dalla stalla e fecero ritorno al paese. Qui vennero accolte da un incredulo stalliere, zio Toni per l’appunto, che, incuriosito dal tintinnio del carico che le due mule trasportavano sul dorso, volle dare una sbirciata. Vide le monete d’oro e, senza porsi troppe domande, se ne appropriò, ma utilizzò quegli inestimabili beni con parsimonia e in maniera accorta. Da quel momento in poi la caverna, che per secoli aveva protetto quel tesoro, prese il nome di Grotta d’Anzisa, in onore del villaggio natio del fortunato stalliere.