“Il rischio epidemico è più elevato in alcune delle regioni settentrionali dell’Italia rispetto alla parte centrale e meridionale. Da una analisi basata sui dati ufficiali messi a disposizione da parte dell’Istat, dell’Istituto superiore della Sanità e di altre agenzie europee si è trovata una interessante e forte correlazione fra l’impatto della pandemia da Covid-19 e diversi fattori che caratterizzano in maniera diversa le regioni italiane quali inquinamento atmosferico da PM10, temperatura invernale, mobilità, densità e anzianità della popolazione, densità di strutture ospedaliere e densità abitativa”.
Lo sostiene il prof. Andrea Rapisarda, associato di Fisica teorica dell’Università di Catania, sulla base di una valutazione a priori del rischio epidemico delle regioni italiane in relazione a questi fattori eseguita tramite una nuova metodologia elaborata da un gruppo interdisciplinare di docenti e ricercatori allo scopo di individuare i motivi per cui la diffusione della pandemia è stata più veloce e letale in alcune regioni dell’Italia piuttosto che in altre.
La ricerca dal titolo “Strategies to mitigate the COVID-19 pandemic risk” è realizzata da un team composto da docenti Alessio Biondo del dipartimento di Economia e Impresa, Giuseppe Inturri del dipartimento di Ingegneria elettrica elettronica e informatica, Vito Latora e Alessandro Pluchino del dipartimento di Fisica e Astronomia, Rosario Le Moli del dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale e Giovanni Russo del dipartimento di Matematica e Informatica, dalla ricercatrice Nadia Giuffrida del dipartimento di Ingegneria civile e architettura e dalla dottoranda Chiara Zappalà del dipartimento di Fisica e Astronomia.
“È stato rilevato che il rischio epidemico è più elevato in alcune delle regioni settentrionali dell’Italia rispetto alla parte centrale e meridionale – spiegano i ricercatori -. Il nostro indice di rischio epidemico mostra forti correlazioni con i dati ufficiali disponibili dell’epidemia Covid-19 in Italia e spiega in particolare perché regioni come Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto stiano soffrendo molto di più rispetto al centro-sud. D’altra parte queste sono anche le stesse regioni che solitamente subiscono il maggiore impatto (in termini di casi gravi e decessi) anche per le influenze stagionali, come rivelano i dati dell’Iss“.
“Riteniamo quindi che non sia un caso che la pandemia di Covid-19 si sia diffusa più rapidamente proprio in quelle regioni con un più alto rischio epidemico come Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto – aggiungono i ricercatori -. I primi casi sono stati individuati sia a Roma a fine gennaio, con la coppia di turisti cinesi che girava da un po’ per la capitale, sia in Lombardia e Veneto a fine febbraio”.
“Poi, poco prima del lockdown del paese – continuano i ricercatori – il 9 marzo e subito dopo, diverse ondate di centinaia di migliaia di persone sono rientrate nelle loro regioni di origine al centro sud diffondendo molto probabilmente il virus in tutta Italia. Stime abbastanza realistiche ci dicono che in Italia, a causa di una fortissima percentuale di asintomatici o sintomatici lievi, a cui non è stato effettuato alcun tampone, ci possano essere al momento da uno a dieci milioni di persone che sono venute in contatto col virus e che probabilmente sono sparse un po’ in tutte le regioni”.
Anche se le misure di isolamento sociale hanno sicuramente dato un grosso contributo a contenere la diffusione, non si spiega altrimenti come mai il maggior numero di casi di terapie intensive e decessi sia avvenuto di gran lunga proprio in quelle regioni del nord Italia dove appunto il rischio epidemico da noi stimato è maggiore“.
“Questo studio, se da una parte ci fa capire perché il nord Italia sia tendenzialmente sempre più a rischio per quanto riguarda le epidemie, dall’altra lascia ben sperare per il centro-sud, dove molto probabilmente l’impatto di questa pandemia e di possibili altre ondate future sarà sempre più lieve in termini di casi gravi e decessi a causa del minor rischio epidemico legato ai fattori strutturali trovati – sostengono i ricercatori -. Questo studio potrebbe anche essere utile per immaginare delle possibili riaperture graduali del paese che, secondo questa logica, potrebbero partire proprio da quelle regioni con un rischio epidemico minore“.