“Scusi, per i La Magna?”; “Chi?!”; “I Panda!”; “Ah! Vai avanti, gira a sinistra e poi in fondo, il cancello blu”. Questo dialogo, avvenuto diversi anni fa tra un amico che cercava di farsi spiegare la strada per casa mia (ho sempre vissuto in zone abbastanza fuori mano) e un vicino, spiega bene cosa significhi avere una ‘nciùria in Sicilia. La ‘nciùria, chiamata anche ‘ngiuria, peccu o peccuru, si lega a un individuo o un gruppo di persone e spesso l’accompagna per tutta la vita. Una sola parola o due in siciliano bastano a chiarire il posto che occupiamo o che hanno occupato i nostri avi nella società, dicendo molto sulle nostre origini. Più che una semplice “tradizione popolare”, la ‘nciuria è una miniera di conoscenze per linguisti e antropologi, ma ha anche un importante valore letterario, malgrado negli anni il suo uso stia diminuendo.
‘Nciùria: origine e significato
La parola ‘nciùria significa nel senso letterale ingiuria, dal latino “iniuria(m)”, col significato di “fuori legge, ingiusto“. Un composto che viene dal privativo “in-” e dal sostantivo “ius, iuris”, diritto. Nel significato più comune, l’ingiuria è quindi un’offesa, un insulto alla dignità altrui. In siciliano, tuttavia, il connotato offensivo in parte si perde e la parola assume una sfumatura più neutra, equivalente in italiano al soprannome, proprio o di famiglia.
Questi “soprannomi” possono avere le origini più disparate e ciascuno descrive una peculiarità dell’individuo o gruppo di persone che designa, con toni che possono essere scherzosi, descrittivi o anche ingiuriosi. Alcune ‘nciùrie, tra le più comuni, alludono a caratteristiche fisiche e, specie a quando si riferiscono ai singoli, sono sempre precedute dall’articolo (“u Tignusu”, “a Mena”). Altre, invece, alludono al carattere personale (“Ammuccalapuni” o anche “Buddaci”). Interessanti, poi, le ‘nciùrie che si rifanno ai mestieri, perché a volte parlano di una Sicilia che non c’è più, con alcuni lavori scomparsi nel corso degli anni (“Uttaru”, chi costruisce le botti; “Tammurinaru”; “Firraru”).
Insomma, come diceva lo studioso tedesco Gerhard Rohlfs, autore di uno dei più importanti studi sulle ‘nciùrie nel volume Soprannomi siciliani: “Non è un’esagerazione quando si dice che il soprannome rappresenta una fonte inesausta per la creazione di nuovi cognomi. Anzi, si può sostenere che essi, particolarmente in Italia, costituiscono l’elemento più vivo, più variato e più interessante nelle molteplici origini, donde sono sorti i cognomi moderni”. Non a caso, a Capizzi, un comune del Messinese, gli abitanti hanno chiesto e ottenuto alla fine degli anni ’90 che i soprannomi venissero registrati assieme ai cognomi all’anagrafe.
Le ‘nciùrie nella letteratura
In Il giorno della civetta, Leonardo Sciascia definisce le ‘nciùrie “questa specie di genere letterario“, ma ai soprannomi hanno attinto tutti i grandi scrittori siciliani. Due significativi esempi vengono da Giovanni Verga e sono legati proprio alle sue opere più famose. In Rosso Malpelo la ‘nciùria del protagonista è legata al pregiudizio secondo cui chi ha i capelli rossi sarebbe “malvagio”. Un soprannome che incide sulla vita del protagonista e che da solo ne influenza il carattere, le azioni e la stessa sorte, mostrando quanto forte possa essere il giudizio arbitrario della società sui più deboli. Nella novella, un altro esempio è legato a “Ranocchio”, chiamato così per la sua andatura claudicante, mentre il padre di Malpelo è soprannominato “Bestia” per la sua capacità di sobbarcarsi i lavori più pesanti. Per non dimenticare, poi, I Malavoglia, dove la ‘nciùria si lega all’intera famiglia.
Così scriveva Verga in una lettera all’amico Luigi Capuana nel 1878: “Io son contento del mio sacrificio incruento, che mi lascia meglio soddisfatto del mio lavoro e mi fa sperare che riesca quale l’ho vagheggiato in immaginazione. A proposito, mi hai trovato una ‘ngiuria che si adatti al mio titolo? Che ti sembra di I Malavoglia?“, mentre nel romanzo scrive che, in realtà, il vero cognome della famiglia era “Toscano”, ma “questo non voleva dire nulla, poiché da che mondo era mondo, […] li avevano conosciuti per Malavoglia”.
Ma di ‘nciùrie hanno fatto uso in diversi modi anche altri scrittori, come Pirandello, Brancati o, in tempi ancora più recenti, Camilleri. Se così tanti letterati si sono appropriati di questa tradizione, fino a trasformarla in un vero e proprio espediente letterario, è perché i soprannomi siciliani sono simbolo dell’identità psicologica non solo delle persone a cui vengono affibbiati, ma dell’intero contesto sociale da cui nascono, acquisendo la capacità di raccontare la nostra terra anche a chi non l’ha mai vista.
E oggi? Attualità e “declino” dei soprannomi siciliani
Viene ripetuto da tutte le parti che le ‘nciùrie sono una tradizione che sta scomparendo. Sopravvivono tra gli anziani e nei piccoli paesi, ma tra i giovani sarebbero cadute in disuso. Tra le cause addotte, la modernità, la scomparsa di alcuni mestieri e, forse, anche un modo diverso di vivere in società. Ma è davvero così? In un articolo degli studiosi Giuseppe Paternostro e Roberto Sottile in cui si analizzano i rapporti tra nickname e ‘nciùria tra i giovani, si parla di “problemi di vitalità” dei soprannomi siciliani. Giovane età e vita urbana sarebbero i principali fattori che da un lato determinano la contaminazione del siciliano con l’italiano e dall’altro rendono più effimeri e volatili i soprannomi.
I due ricercatori hanno quindi individuato tra un gruppo composito di adolescenti la resistenza di forme tradizionali, come le ‘nciùrie in siciliano derivanti dal soprannome di famiglia o da alcune caratteristiche fisiche (“Bbaff’i chiummu”, “Panella”). Allo stesso tempo, però, altre vengono dal mondo della musica o dalla TV e mostrano come anche i soprannomi vadano “italianizzandosi” (come “Caparezza”, dal nome del cantante, o anche “Pipitona”, dalla nciùria di famiglia Pupituni).
In conclusione, se la tradizione cambia col passare degli anni, non può dirsi di certo abbandonata. I soprannomi accompagnano da sempre l’umanità e con ogni probabilità continuerà a essere così anche in futuro. Anzi, è possibile che oggi nascano nuovi modi di usare la ‘nciùria, recuperando o riscoprendo il legame col siciliano e provando a farle rivivere. In un mondo in cui tutti i nomi utente sono sempre già presi e si avverte ogni giorno di più il bisogno di pallini blu che certifichino la nostra identità, chi dice che la ‘nciùria non possa diventare un modo per distinguersi dalla massa, così come da sempre distingue famiglie e persone?