Ieri, presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Catania, è andato in scena “Stupidorisiko – Una geografia di guerra”. Si tratta di uno spettacolo teatrale prodotto da Emergency Ong Onlus, avente come unico attore Mario Spallino nella parte di un giovane toscano, inconsapevole e senza lavoro, che decide di dare una svolta alla sua vita arruolandosi e partendo per l’Iraq. Le avventure del giovane soldato faranno da cornice a una critica ragionata e ironica che si snoda attraverso il racconto delle più grandi guerre che hanno scandito la storia dell’uomo.
Perché ancora oggi un giovane decide di arruolarsi? La risposta che si può trovare nel monologo di Mario Spallino è “perché arruolarsi vuol dire avere due anni di affitto pagati”, perché agli orecchi dei giovani la proposta di diventare un marine può suonare come “vado in vacanza e mi pagano”. Inizia con questo riferimento alla contemporaneità lo spettacolo di Emergency, per poi spostarsi subito dopo al tempo di quella che “doveva essere l’ultima guerra e invece fu la Prima Guerra Mondiale”: non si combatte più corpo a corpo con la sciabola, ma si sta all’interno delle trincee per uccidere il nemico senza nemmeno guardarlo in faccia. Da quel momento, “la guerra è morte di massa. Un sistema industriale. Moriva l’uomo e moriva la natura”. Se si elencano tutti gli stati coinvolti sembra come giocare a Risiko, uno stupido Risiko. È proprio questo il taglio che la regista Patrizia Pasqui ha voluto dare allo spettacolo: raccontare la guerra attraverso una prospettiva diversa, ovvero quella delle vittime e quella della stupidità che l’ha contrassegnata.
Sotto questa stessa lente, si fa riferimento alla Seconda Guerra Mondiale, costata la vita a 50 milioni di persone e alla quale l’Italia partecipa, seppur impreparata, soltanto perché: “Il duce aveva bisogno un po’ di morti per sedersi al tavolo delle trattative. Allora per mostrare che l’Italia fascista è capace di fare la guerra bene come la Germania nazista, si decide di spezzare le reni ad un nemico privo di qualsiasi potenza militare: la Grecia” recita con enfasi Spallino, per poi narrare la rovinosa sconfitta che dovette subire il bel paese. La fine della seconda guerra mondiale è segnata da una ferita profonda e insanabile, inferta al genere umano: l’esplosione delle bombe ad Hiroshima e Nagasaki. “La bomba atomica è un corto circuito dal punto di vista bellico, serve solo per distruggere. E che senso ha conquistare un paese totalmente distrutto e per di più radioattivo? È come se io desiderassi qualcosa e per averlo facessi di tutto per romperlo”.
Si passa poi a raccontare le tappe fondamentali della Guerra Fredda, il nuovo “equilibrio del terrore” inventato nel secondo dopoguerra dai veri vincitori del conflitto per continuare a farsi la guerra per procura, cioè attraverso altre nazioni e gli altri popoli: i colpi di stato in Sud America degli anni 70, le guerre nel sud-est asiatico, la guerra di Corea, la guerra del Vietnam. Il racconto di Spallino tratteggia a questo punto quegli eventi storici e guerreschi che hanno contribuito a delineare il panorama storico-politico attuale, con particolare riferimento alla guerra in Afghanistan. Dopo la sciagura dell’attentato dell’undici settembre 2001, si rispose alla violenza con la violenza della vendetta e cominciarono i bombardamenti americani in Afghanistan: “Dal terzo giorno di bombardamento i piloti ritornano alle basi senza aver sganciato tutte le bombe. Piloti pacifisti? No, è che non ci sono più obiettivi. Non è rimasto molto in un paese in cui da quarant’anni c’è una guerra ininterrotta, alla quale hanno partecipato tutti, persino Osama Bin Laden. È come se in Afghanistan si facesse un gioco che si fa fin dai tempi di Gengis Khan: si chiama Buzkashi. I giocatori di Buzkashi sono a cavallo e non c’è alcun limite al loro numero. I giocatori di Buzkashi si contendono senza regole una capra morta buttata in mezzo ad un prato. La capra a volte finisce a pezzi. Quella capra è l’Afghanistan, i suoi uomini, le sue donne e i suoi bambini”.
L’eredità di tutte queste guerre è sepolta nelle dinamiche che hanno caratterizzato la seconda guerra del golfo, combattuta nel 2003 per abbattere il regime di Saddam Hussein. “Si chiama “guerra umanitaria” e si fa…per umanità. Arrivano a Baghdad, prendono Saddam che viene sommariamente processato e subito impiccato. Peccato che quella guerra ci abbia lasciato una piccola tassa da pagare: non la TOSAP, neanche l’IMU, si chiama ISIS”. Ma non ci si è ancora stancati di fare la guerra e molti italiani con le loro tasse hanno finanziato le bombe che hanno tolto le gambe e le speranze a molti figli afghani: “Con tutti i soldi spesi in armi, munizioni e mine si sarebbe potuto comprare l’Afghanistan e farne un giardino. Noi italiani c’abbiamo speso miliardi di euro. Abbiamo speso miliardi di euro per la guerra più lunga della Repubblica italiana, contro uno stato che non ci ha mai minacciato. Soldati sono morti laggiù. Il risultato? Il risultato è che oggi i Talebani sono più forti di prima. Che dobbiamo trattare con loro se vogliamo fermare l’Isis che sta avanzando anche da questa parte attraverso il Pakistan”.
Alla fine del monologo, il giovane marine toscano, ritornato a casa prende coscienza e si rende conto di quanto la guerra possa essere un gioco lugubre: “Mi sembra di essere stato uno scemo. Uno scemo di guerra. Ma allora come facciamo a credere a chi ci racconta che la guerra è giusta, è inevitabile? Siamo nati ieri? Se non conosciamo la storia sì. E se non conosciamo la storia, ci possono raccontare quello che vogliono. Perché se conoscessimo meglio la storia sapremo che non esiste una guerra giusta perché la guerra è ingiustizia. Che non esiste la guerra al terrorismo perché la guerra è terrorismo. Che non esiste la guerra umanitaria perché la guerra è disumanitaria. Se conoscessimo meglio la storia, non ce ne staremmo buoni a sopportare tutto questo. Allora si può fare qualcosa: c’è bisogno di cibo, di medicine, di dottori e di ospedali e non di armi. Avere accesso alla salute è la prima forma di giustizia. Si può fare c’è chi lo fa: Emergency lo fa”.
La manifestazione è stata organizzata dal prof. Rosario Mangiameli, professore ordinario di Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze politiche, insieme ai volontari di Emergency Catania, guidati dal loro coordinatore Damiano Blandini e dalla dott.ssa Brulinde Zisa. Quest’ultima alla fine dello spettacolo ha sollecitato un dibattito, all’interno del quale Mario Spallino, interpellato per una domanda, ha dichiarato che il primo passo per abolire la guerra è farla diventare un tabù, com’è successo per la schiavitù. “Magari vedessi un primo approdo a questa isola utopica. – afferma Spallino – Oggi la parola utopia ha preso la valenza di irrealizzabile: in realtà l’utopia è qualcosa che ancora non è accaduto. Sembra impensabile, ma poi tante persone hanno pensato l’impensabile e questo è accaduto. Siamo all’inizio di un percorso, anche perché forse, per prima volta nella storia, se scoppia una guerra non è solo la distruzione della razza umana ma è la distruzione dell’intero pianeta. Fino a questo momento non c’era questa possibilità. Adesso c’è”.
“L’utopia è l’orizzonte che permette all’umanità di andare avanti – dichiara in conclusione la dott.ssa Zisa – Penso che l’utopia debba essere il fulcro dell’azione e dell’interesse dei giovani, perché voi giovani potete cambiare il mondo. Soltanto voi giovani. Noi ve lo abbiamo consegnato un po’ malandato. È per questo che il 19 marzo ci vedremo di nuovo qua con le altre associazioni di volontariato. Il tema conduttore sarà “Il volontariato come risposta al nichilismo giovanile in questo periodo storico”.