Gli italiani hanno un pessimo rapporto con la loro lingua: gli ultimi dati Ocse lo confermano. Per scoprirne le motivazioni, Liveunict ha intervistato Stefania Iannizzotto, ricercatrice presso l’Accademia della Crusca.
Che la lingua di Dante non sia in gran forma già da qualche tempo non è una novità. Ancor meno, però, lo è il rapporto che gli italiani hanno con essa. A confermarlo è il recente rapporto Ocse 2017 che ha conferito agli italiani la maglia nera per capacità di lettura: analizzando un campione di persone compreso tra i 16 e i 65 anni, è venuto fuori che il 28% degli italiani ha difficoltà a comprendere un testo scritto nella propria lingua. Se consideriamo, inoltre, che la media degli altri Paesi si attesta intorno al 15%, si tratta, senza dubbio, di un ritratto piuttosto allarmante e nient’affatto lusinghiero della nostra società.
Per tentare di capire le motivazioni e le dinamiche che possono aver portato a questi risultati, noi di Liveunict abbiamo chiesto l’opinione di un’esperta – Stefania Iannizzotto, assegnista di ricerca presso l’Accademia della Crusca – la quale ci rivela come, in realtà, dietro questi numeri sconfortanti ci siano questioni ben più complesse. Una delle prime ragioni che la ricercatrice adduce, e che forse non ci stupirà più di tanto, è che gli italiani oggi leggono poco e sempre meno. “Purtroppo” – ci dice – “è sempre più diffusa la disabitudine alla lettura di testi lunghi. Si sta progressivamente perdendo l’abitudine a mantenere l’attenzione sulla pagina (anche virtuale) e leggere e comprendere diventa più difficile”. Un problema che sicuramente deriva dal cattivo rapporto che abbiamo ormai con la carta stampata ma che, inevitabilmente, si riversa anche sulla rete, altro luogo in cui il tempo di lettura si sta abbassando sempre di più, con la conseguenza che “l’unica modalità di lettura – o comunque quella prevalente – è quella cursoria, veloce e superficiale…”.
Ma che conseguenze può avere tale approccio sulla salute della nostra lingua? Prima che generare delle evidenti difficoltà nella comprensione di un testo, come dimostrato dai dati Ocse, leggere meno comporta “un impoverimento del nostro serbatoio lessicale: si conoscono sempre meno parole e si confondono i loro significati e così si finisce per usare sempre le stesse parole in qualsiasi situazione comunicativa”. “Soprattutto – continua Iannizzotto – non leggere più testi complessi, costruiti in maniera dettagliata e argomentata, porterà anche alla perdita della conoscenza e della padronanza di strutture sintattiche più articolate, utili per descrivere concetti più profondi. Saremo meno ricchi, avremo meno risorse a nostra disposizione per esprimerci”. Da qui a non riuscire più a comprendere appieno un testo scritto il passo è veramente breve: la nostra lingua, forse molto più di altre, possiede una struttura talmente ricca e articolata che ha bisogno di essere continuamente esercitata. Non farlo, nel tempo, potrebbe avere pesanti ricadute linguistiche.
Se, però, dovessimo trascinare qualcun altro sul banco degli imputati – oltre che alla proverbiale pigrizia tutta italiana – a chi altro daremmo la colpa? Potrebbe essere anche un po’ colpa della tecnologia (abbreviazioni negli sms, correttori automatici ecc.)? O dell’abuso di anglicismi a discapito di equivalenti italiani? Secondo Iannizzotto, in parte e “solo se queste modalità diventassero prevalenti o esclusive, cioè solo se davvero scrivessimo e leggessimo solo attraverso cellulari e tablet e solo se frequentassimo tanto a lungo e intensamente solo testi in inglese”. Tuttavia è innegabile che a causa degli smartphone, il nostro rapporto con la scrittura ha subito un cambiamento non indifferente. E se da una parte, tale cambiamento si è rivelato positivo (ri)avvicinando molte persone alla scrittura, dall’altro ha condotto a degli effetti negativi gravissimi attraverso la costante diffusione di “forme linguistiche errate – diafasicamente basse o addirittura substandard – che proprio in virtù del loro impiego frequente appaiono via via meno gravi.”
Il problema è che trattandosi, nella maggior parte dei casi, di testi informali che inviamo ad amici o parenti “c’è un minor controllo su come si scrive, e questo da un lato facilita la presenza di errori e dall’altro innalza la soglia di tolleranza nei loro confronti (per esempio accenti e apostrofi!). In breve, continua Iannizzotto, “si deproblematizza l’atto scrittorio e non c’è più bisogno di stare attenti quando si scrive”. Questa diffusione di forme meno corrette tende, ovviamente a creare nuove consuetudini linguistiche e può rappresentare un vero e proprio pericolo per la nostra lingua, un pericolo che bisogna scacciare “non abbassando la guardia e sapendo distinguere i diversi contesti comunicativi, le tipologie di testo e le caratteristiche formali che devono avere proprio tenendo conto della norma a cui fanno riferimento. Una cosa è scrivere un messaggino, altra una email, altra un curriculum, altra un articolo di giornale, altra ancora una tesi!”, conclude. Lo stesso discorso vale per i forestierismi di cui sarebbe meglio non abusare: “in alcuni ambiti, quello scientifico o tecnologico per esempio, il ricorso al termine inglese è opportuno, in molti altri casi però è opportuno invece usare il termine italiano equivalente”.
Se tutto quello che abbiamo detto finora è vero, però, c’è un altro elemento che lascia perplessi: lo stesso rapporto Ocse citato all’inizio ci dice anche che – nonostante i pessimi risultati sulle capacità in lettura degli italiani – il nostro Paese ha uno dei più alti tassi di laureati in materie umanistiche (il 30% rispetto alla media europea che si attesta intorno al 19%). Non si tratta di due dati che entrano nettamente in contrasto? Ebbene, pare proprio di no: “spesso la laurea in materie umanistiche è un ripiego”, sostiene Iannizzotto. Una provocazione di non poco conto che, però, forse mette in luce un altro grande problema e che, a detta sua, riguarderebbe le facoltà umanistiche in cui spesso ci si iscrive “perché non si sa che cosa fare e si sceglie la via che sembra più facile”. Sebbene, infatti, la ricercatrice ammetta che esistano anche molti studenti seri e motivati, “la maggior parte di essi proviene dagli istituti professionali e dai tecnici in cui l’istruzione umanistica è più carente. La loro formazione è più difficoltosa e i risultati non sempre esaltanti”. A questo si unirebbe poi il fatto che, tendenzialmente le facoltà umanistiche tendono a bocciare meno, e la motivazione risiederebbe nel fatto che “i finanziamenti per gli atenei sono proporzionali al numero degli studenti, le facoltà fanno di tutto per averne tanti: più studenti s’iscrivono, più soldi arrivano dal ministero, più insegnamenti si attivano, più docenti si sistemano. Per la stessa ragione – cioè più studenti si laureano più incentivi si ottengono (e più sono alti i voti di laurea meglio è!).
Che sia, dunque, anche un po’ colpa di tutto il sistema d’istruzione del nostro Paese? I dubbi sono leciti, ma resta il fatto che l’insieme di questi fattori – pigrizia, tecnologia e sistema universitario – (a voi le dovute valutazioni e percentuali!) si rivela micidiale per la salute della nostra lingua che, forse, con un maggiore senso di responsabilità dovremmo imparare a proteggere un po’ di più.