Se l’Italia ha il 41,6% dei giovani disoccupati non è solo colpa della crisi. Troppo semplice e superficiale prendersela con vaghe congiunture economiche internazionali e non, dove le responsabilità sono di tutti e di nessuno, più complesso invece andare alla ricerca di quei problemi congeniti, che pesano come un macigno nella sostanza dei dati statistici. Il 14 gennaio è uscito il rapporto McKinsey, condotto su otto Paesi Ue e presentato a Bruxelles, presso il centro di ricerca Bruegel («Il viaggio tempestoso dell’Europa, dall’educazione all’ occupazione») che sull’Italia si esprime così:
«La disoccupazione giovanile in Italia è raddoppiata dal 2007, toccando il 40% nel 2013 … tuttavia, questa cifra è solo parzialmente dovuta alla crisi economica: i problemi ribollono molto più nel profondo… Il 47% dei datori di lavoro italiani riferiscono che le loro aziende sono danneggiate dalla loro incapacità di trovare i lavoratori giusti, e questa è la percentuale più alta fra tutti i Paesi esaminati»
Non è solo una questione italiana, infatti le stesse problematiche vengono riscontrate dal 45% degli imprenditori greci, dal 33% degli spagnoli, dal 26% dei tedeschi. Oltretutto ci sono tanti imprenditori, che non sanno come mettersi in contatto con i giovani competenti nel settore di loro interesse, o meglio, i giovani spesso non sanno come “mettersi in vista”. In buona sostanza, c’è una sorta di spread tra mondo scolastico-universitario e mondo lavorativo, con tutti i problemi che ne derivano, che funge da freno inibitore per tutte quelle aziende che, pur essendo nelle condizioni di assumere personale, non riescono a trovare competenze adeguate. Una diretta conseguenza di questo gap viene individuata dal rapporto: «In Italia, Grecia, Portogallo e Regno Unito sempre più studenti stanno scegliendo corsi di studio collegati alla manifattura, alla lavorazione, nonostante il brusco calo nella domanda in questi settori. E in generale, non è una cosa positiva vedere un ampio numero di giovani scommettere il loro futuro su industrie in decadenza. Ci sono abbinamenti sbagliati, educatori e imprenditori non stanno comunicando fra loro» .
Quanto alle reali competenze, poi, solo il 42 % delle aziende le riscontra negli aspiranti lavoratori. Sempre secondo il rapporto, solo 23 giovani italiani su 100 hanno un’ottima padronanza della lingua inglese, solo 18 posseggono buone capacità informatiche. Discorso a parte va fatto per le conoscenze pratiche, che difficilmente sono presenti nei giovani alle prime esperienze lavorative. Gli stage, l’anello diretto fra la scuola e il lavoro, che possono colmare, quantomeno in parte, il “traumatico” passaggio università-lavoro, in Italia, sono però poco efficaci : mentre il 61% in media dei giovani europei trova un posto di lavoro al termine di uno stage, in Italia la percentuale scende sotto il 46%.
Infine, il dato più sconfortante : l’Italia è fra i tre paesi, insieme a Grecia e Portogallo, dove la percentuale di ragazzi che non ha potuto frequentare l’Università per ragioni economiche è più alta e dove «la più bassa proporzione di giovani (sotto il 40%) ha completato l’istruzione post-secondaria».