Di fronte alle bare di Bergamo bastava una bandiera, che fosse il tricolore o un arcobaleno con la scritta “Andrà tutto bene“, a far sentire ai vicini che non si era soli nella comune disgrazia. Di fronte al silenzio desolante delle piazze di tutta Italia, svuotate da chi le viveva ogni giorno, l’inno cantato ai balconi dopo il triste bollettino della Protezione civile era sufficiente per placare per qualche minuto lo sconforto provocato dai dati sul contagio. Con la fine della primavera, scene di quotidiana tenerezza, come i vicini che prendono il caffè insieme dal balcone, sono state sostituite da un progressivo smarrimento di quel bisogno di comunità iniziale.
Da maggio in poi, e limitandosi solo ad alcuni fatti salienti, gli italiani hanno assistito, nell’ordine: all’apertura delle discoteche (“in sicurezza”, sia chiaro); alle manifestazioni dei gilet arancioni, dove si è arrivato ad asserire che Conte potesse telefonare a Bill Gates, decidendo di iniettarci mercurio nelle vene collegati al 5G (?!); al noto imprenditore Flavio Briatore, positivo al Covid, che dal San Raffaele dichiara di essere ricoverato per una prostatite; al dibattito, durato tutta l’estate, tra esperti intenti a bollare il COVID-19 come “clinicamente morto” e a battibeccare in prima serata al riguardo; alla chiusura delle discoteche; ad altre manifestazioni, più generalmente etichettabili come “No-Mask”; alla risalita dei contagi; ai recenti provvedimenti, che hanno portato a diverse proteste in tutta Italia; alla violenza in piazza, con tanto di bombe-carta, fumogeni e vetrine spaccate.
Infine si tace, per esigenza di brevità, il dibattito politico tra governo, regioni e opposizioni. Con esclusione dell’ultima frase, che non può passare sotto silenzio. Quella del recentemente rieletto governatore della Liguria, Giovanni Toti (Lega), che nella giornata di Ognissanti afferma: “Per quanto ci addolori ogni singola vittima del COVID-19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate”.
È chiaro che non andrà tutto bene, quella frase apotropaica appesa ai balconi è sbiadita in fretta con le piogge autunnali. Per quanto esaustivo, tuttavia, il riassunto fatto finora non basta a spiegare il cambiamento d’atteggiamento collettivo avuto rispetto a marzo: dove c’era unità, oggi a ogni chiusura corrisponde la protesta del settore corrispondente e i nuovi DPCM, a torto o a ragione, non vengono più accettati. Per fare più chiarezza al riguardo, abbiamo chiesto alla professoressa Rossana Sampugnaro, docente di Sociologia dei fenomeni politici al dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Catania, di analizzare alcuni dei fenomeni sociali più recenti innescati dalla pandemia.
A marzo, il lockdown ha prodotto un sentimento profondo di comunità, con l’idea diffusa che soltanto restando uniti avremmo superato la pandemia. Oggi si assiste al fenomeno opposto, con proteste da diversi settori e un maggiore scetticismo nei confronti delle decisioni prese dalla politica. A cosa si deve questa perdita di coesione?
“In una fase iniziale la paura di qualcosa di sconosciuto ha placato i dissensi di tipo politico, lasciando prevalere le voci della scienza, virologi e studiosi di fenomeni pandemici che, almeno in una prima fase, concordavano sulla valutazione della pericolosità del virus. Per un certo periodo la politica ha delegato ai “saperi esperti” le decisioni più spinose. Commissioni, consulenti, comitati hanno preso il posto dei politici per una lunga fase. Alla fine della primavera questo clima di concordia si è sciolto e sono ricomparsi i conflitti, prima di tutto quelli all’interno del sistema politico dove sono emersi i difficili equilibri tra libertà e salute, tra salvaguardia della vita e salvaguardia dell’economia. La confusione di competenze tra stato e Regioni è un ulteriore elemento di destabilizzazione della coesione sociale”.
Nella prima fase della pandemia i social hanno sì diffuso fake news, ma anche un maggior senso di consapevolezza e responsabilità. Dai social, poi, si è passati alle piazze e l’estate ha visto diverse manifestazioni “negazioniste”, si parla di “dittatura sanitaria”. Quali fattori spingono tante persone a scendere in piazza, dimenticando la paura del contagio o negando del tutto oltre un milione di morti?
Il filone “negazionista” può sicuramente inserirsi all’interno di un movimento – neanche troppo sotterraneo – di cospirazionisti, ossia di persone che non credono nelle spiegazioni ufficiali o nei report scientifici, perché ritengono che siano sempre in azione poteri forti che agiscono a discapito dei più. Dietro tanti eventi si nasconderebbe un grande burattinaio, capace di truccare risultati, di manipolare i dati e dirigere le menti. Ad esempio alcuni sostengono che il virus sarebbe solo la scusa per propinare nuovi vaccini e per arricchire le casse di “Big Pharma”. Parliamo di un fenomeno antico che prende forme diverse e che nell’attuale stagione, trova un supporto straordinario nei social network: una minoranza rumorosa e attiva può ottenere una grande visibilità e attrarre nuovi soggetti, specie se incontra un wishful thinking, ossia una speranza.
In tutto questo gioca un ruolo la stanchezza per un lungo periodo di chiusura verso l’esterno e di contrazione delle relazioni interpersonali. Anche io penso che la parola giusta per definire questo periodo sia distanziamento “fisico” ma che questo abbia avuto delle conseguenze sulla nostra socialità: le chiacchere al bar o dalla parrucchiera, gli incontri casuali al parco o le possibili nuove relazioni che possono nascere da feste, riunioni, etc. Penso che molti di noi abbiano “ceduto” a quelle interpretazioni del futuro che indicavano la fine della crisi pandemica come vicina e che inducevano ad una ripresa dei normali comportamenti.
Come si spiega la presenza di soggetti destabilizzanti quali membri di movimenti politici estremisti quali Forza Nuova (si vedano le proteste a Roma) o affiliati ai clan della Camorra (come argomentato da diverse testate in occasione delle prime proteste a Napoli) alle manifestazioni No-Mask e alle più recenti proteste contro gli ultimi DPCM?
”Ogni crisi è un’occasione per partiti e movimenti per acquisire visibilità, soffiando con forza sulle divisioni presenti in un contesto sociale o creandone a arte per ottenere consenso e visibilità. Certi “imprenditori politici” si insinuano nelle divisioni, soffiando sulle appartenenze e acuendo i contrasti. Più complicato è capire il ruolo della criminalità organizzata in questo contesto: forse le misure del lockdown hanno come conseguenza anche un maggior controllo del territorio che infastidisce chi fa traffici e azioni illeciti”.
In questi giorni si parla anche di fallimenti della politica. Il governo accusa le regioni di non aver predisposto un numero di terapie intensive insufficiente, i governatori regionali alzano la voce col governo o adottano provvedimenti più severi, cercandone inevitabilmente un guadagno anche in termini di popolarità. È troppo tardi per riguadagnarsi la fiducia dei cittadini?
“Non vi è dubbio che il governo stia affrontando una crisi più gravi del dopoguerra e che non ci sono soluzioni in grado di fornire certezze in termini economici e di salute pubblica. Sicuramente non ha giovato una comunicazione ondivaga sulla crisi pandemica più incline a confrontarsi con “figli da proteggere” che con cittadini maturi. Non voglio dire che vi sia stata reticenza sui dati ma che non vi è stata una relazione chiara tra numeri della crisi (indice di trasmissione, capienza delle terapie intensive…) e misure da adottare. Bisognerebbe ricominciare da qui: trattare i cittadini come adulti maturi cui fornire informazioni chiare e politiche conseguenti”.