Da quando la pandemia coronavirus si è diffusa in tutto il mondo, l’unica cosa che ha circolato in maniera più rapida sono state le informazioni su di essa. In Italia, centro europeo del contagio, ormai non si parla d’altro. Non solo nei notiziari, ma anche sul web, ovviamente, così come nelle conversazioni a casa; ed è altamente probabile che se alla TV o alla radio si ascolta un programma, registrato prima della fine di febbraio, si faccia almeno una volta menzione della parola “coronavirus” alternata al nome più scientifico “Covid-19”.
“Quando questa emergenza sarà finita e guarderemo indietro a quanto è accaduto, sarà probabilmente più facile capire quanto importante sia stato il ruolo giocato dalla comunicazione“: da qui il professore Guido Nicolosi, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso il dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania, parte nello spiegare quanto il virus abbia inciso sui nostri discorsi quotidiani. Con lui LiveUnict ha intrapreso un discorso che ha toccato diverse sfere dell’ambito comunicativo: dalla comunicazione istituzionale e dei media tradizionali sul virus alla reazione degli italiani all’emergenza Covid-19.
Che ruolo stanno avendo i media e la comunicazione pubblica nell’emergenza covid 19?
“A causa di una copertura massiccia ed enfatica, i media ‘tradizionali’ hanno da subito avuto un peso significativo nel far crescere la tensione e l’allerta, realizzando una delle più note disfunzioni studiate dagli studiosi dei mezzi di comunicazione di massa: l’attivazione del panico collettivo. Tutto questo in ‘tempi non sospetti’, cioè quando ancora nessuno conosceva bene la reale portata degli eventi.
Anche la comunicazione istituzionale non è stata certamente sempre rassicurante e ha contribuito in maniera significativa a creare uno stato di angoscia collettiva mai registrato prima nell’Italia repubblicana. D’altronde, la comunicazione istituzionale ‘allarmistica’ è diventata parte integrante della strategia di contrasto alla diffusione del Covid-19 adottata dal nostro Paese. Com’è noto, in altri Stati si sono attuate diverse strategie e la comunicazione istituzionale è stata conseguentemente molto diversa, meno ‘aggressiva’.
La bontà della strategia perseguita dall’Italia la potremo valutare obiettivamente solo quando il processo sarà concluso. Noi tutti ci auguriamo che sia quella corretta, ma è ovvio che se vuoi convincere le persone a vivere per un tempo sostanzialmente indefinito in regime di quarantena volontaria devi in qualche modo terrorizzarle, soprattutto quando il nemico da cui le vuoi difendere è “astratto” (indeterminato dice il filosofo Galimberti), cioè invisibile, dispiega i suoi effetti in maniera differita e in maniera selettiva: infatti, molti giovani non si sentono toccati dal pericolo e in larga parte del Paese non vi è ancora una condizione oggettiva di contagio diffuso”.
Come l’emergenza comune ha cambiato la comunicazione sui social media?
“In questo quadro, com’era normale che fosse, si è attivato un effetto ‘cassa di risonanza’ sui social media. Tutti i media parlano solo di questo. Tutti vogliono sapere tutto in tempo reale, perché l’angoscia (sentimento diverso e più inquietante della paura) è ampia e generalizzata. I social sono specchio e moltiplicatore della realtà sociale e dunque sono diventati un acceleratore di questo processo. Con effetti positivi e negativi allo stesso tempo. Positivi, perché attraverso il controllo sociale diffuso dai social media è stata favorita una crescita della consapevolezza e lo sviluppo di un maggior senso di responsabilità. Negativi, perché con la diffusione di fakenews o con la propagazione di messaggi allarmistici ‘dal basso’ i social hanno contribuito a far raggiungere un livello di guardia all’isteria collettiva.
Ricordiamo che se il panico collettivo supera una certa soglia, si può seriamente mettere a repentaglio la tenuta dell’ordine sociale. Quindi, oggi viviamo sul bordo (comunicativo) di un precipizio. Da una parte, bisogna convincere le persone a restare a casa. Dall’altra, un eccesso di panico potrebbe mettere a repentaglio la nostra stessa capacità di sopravvivere come sistema sociale. Dico questo solo per fare capire il rischio che corriamo, come società, continuando a muoverci sul bordo sdrucciolevole di questo burrone. Siamo in questo momento come dei funamboli e dobbiamo essere bravi, come comunicatori, a sostenere la società in questo equilibrio. E ognuno di noi deve saper essere di esempio. Soprattutto chi ha più responsabilità. Come sta facendo la tanto bistrattata classe medica.
In tal senso, mi sento di dire che la comunicazione istituzionale realizzata in queste settimane dall’Università di Catania è stata esemplare. Ha svolto il suo compito di responsabilizzazione dei suoi utenti e dei cittadini senza mai cadere in allarmismi inutili. Anche la scelta fatta dall’Ateneo di non fermare le attività e di assicurare la didattica a distanza va nella direzione di garantire la continuità didattica agli studenti, ma anche di rassicurarli simbolicamente. Fornire certezze è il principale compito di un’Istituzione responsabile. La sicurezza è l’antidoto più efficace contro il veleno dell’anomia sociale che è il peggiore dei mali per una comunità”.
Dall’inizio dell’emergenza Covid-19, in Italia si stanno moltiplicando flash-mob e iniziative che richiamano all’unità nazionale per superare questo momento difficile (hashtag come #uniticelafaremo, #andràtuttobene sono sempre più popolari). Quali sono i fattori che hanno determinato questo exploit?
“La condizione di assedio da un nemico esterno ed invisibile e l’incomprensione avvertita negli altri Paesi europei ha creato a mio avviso questo sussulto apparentemente nazionalistico che in realtà è più espressione di un desiderio profondo di comunità. Si lega alla consapevolezza che solo restando uniti e con la collaborazione di tutti sia possibile superare questa crisi terribile che, ricordiamolo, non terminerà con la conclusione dell’emergenza sanitaria. Perché a quel punto comincerà la crisi socio-economica, che potrebbe essere molto dura per tutti noi e soprattutto per i più giovani. Le generazioni future potrebbero pagare un prezzo molto alto se questa condizione di paralisi nazionale dovesse durare molto a lungo. Qualcuno potrebbe dover dire: «l’operazione è riuscita, il paziente è morto»”.
In quali simboli si riconoscono maggiormente gli italiani nei vari flash-mob e nei video che circolano sul web in questi giorni? E perché?
“Non abbiamo ancora dati solidi su questo, ma certamente la ‘casa‘ è il topos più diffuso. Rifugio e anche prigione allo stesso tempo. La comunicazione in tal senso è anche contraddittoria ed esprime bene un sentimento ambivalente, com’è normale che sia in questa condizione. Ad esempio, oltre al panico, c’è molta ironia sui social. Qualcuno si scandalizza. Io valuto molto positivamente questo aspetto. Le persone hanno saputo attivare processi di auto-produzione ironica e sarcastica che hanno contribuito ad allentare la tensione e anche ad esorcizzare l’angoscia (meme, video e audio più o meno divertenti che girano su fb, whatsapp o tik tok). Vuol dire che ancora siamo in equilibrio”.
Da sempre l’identità degli italiani si è spesso definita su base regionalistica e locale, basti pensare a Gaber che cantava “il grido ‘Italia, Italia’ c’è solo alle partite”. Oggi, però, sembra di assistere a una nuova vicinanza nella comune difficoltà. Crede che questa inversione del trend perdurerà anche a emergenza finita o dobbiamo aspettarci un ritorno al passato?
“Non sarei così ottimista. Le differenze regionali potrebbero esplodere se il contagio dovesse diffondersi in tutte le regioni. La caccia all’untore (i lombardi, gli emiliani, i veneti, ecc.) potrebbe diventare pericolosamente divisiva. E soprattutto quando bisognerà pagare il conto. Chi pagherà tutto questo? Saremo in grado di garantire, in un Paese fortemente caratterizzato da grandi diseguaglianze geografiche, di genere, di generazione e di classe, un’equa distribuzione dei sacrifici?”.