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Da smart working a overworking: “Ecco perché serve il diritto alla disconnessione”

Lavoratore stanco
Cc: Luis Villasmill / Unsplash.
Da "lavora a qualsiasi orario" a "lavora tutta la giornata" il passo è breve. Ecco perché il diritto a disconnettersi è diventato fondamentale. Ne abbiamo parlato con Gabriella Nicosia, docente di Diritto del lavoro ed esperta di lavoro pubblico.

Fino a marzo 2020 il termine “smart working”, o lavoro agile, era solo un modo elegante per indicare il lavoro da un posto diverso dall’ufficio. Era stato introdotto in Italia a livello legislativo nel 2017, passando quasi sottotraccia. Poi, con la pandemia, è entrato di prepotenza nelle nostre vite. Abbiamo imparato a conoscerne i vantaggi, ma anche i rischi. Su tutti, quello di non staccare la spina dopo il lavoro, di essere sempre reperibili; 24/7 come un distributore automatico. Per questo sempre più spesso si parla di diritto alla disconnessione come di “diritto fondamentale”.

“Oggi in molti si confrontano con una condizione di overworking, che rende evanescenti i confini tra vita lavorativa e personale – spiega a LiveUnict la professoressa Gabriella Nicosia, docente di Diritto del lavoro all’Università di Catania ed esperta di lavoro pubblico –. Il working anytime, anywhere può scivolare, quasi senza accorgersene, in un working every time, everywhere.

Disconnessione in Europa e overworking

Anche col rientro graduale negli uffici, meeting, conferenze e incontri lavorativi si svolgono spesso online. L’annullamento dei tempi di spostamento moltiplica gli impegni, a scapito, spesso, della salute del lavoratore. “Tutti gli studiosi di diritto alla disconnessione oggi si sforzano di trovare argini alle condizioni di lavoro da remoto. Due sono i fronti su cui agisce il diritto alla disconnessione – spiega la prof. Nicosia –: il recupero dei propri necessari tempi di vita e la tutela della propria salute.

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A livello europeo, il diritto alla disconnessione è stato introdotto in Francia, Spagna, Belgio (più come principio), e Italia, nel caso nostrano con la l. n.81/2017. Le cose però si muovono anche sul piano comunitario: il 21 gennaio il Parlamento europeo ha promosso una risoluzione per l’introduzione del diritto alla disconnessione. Nel documento, il diritto a disconnettersi è visto come “diritto fondamentale“, ma si riafferma la nozione di orario di lavoro statuita nella direttiva 2003/88/CE.

Le azioni intraprese a livello nazionale paiono più incisive, sebbene manchi ancora una riflessione concepita sull’odierna nozione del tempo nel rapporto di lavoro – commenta la docente –. La diffusione dei nuovi modi di lavorare è stata troppo veloce perché i sistemi normativi potessero adeguarvisi e arginare il cosiddetto tempo ‘poroso’, il tempo cioè senza barriere, in cui non ti accorgi che continui a lavorare anche quando ti spetterebbe il riposo o comunque un tempo di vita da proteggere”.

Il diritto alla disconnessione in Italia: la legge sullo smart working

La l. n.81 del 2017 disciplina in Italia il lavoro agile (smart working), con modalità, però, molto diverse da quelle sperimentate finora a causa dell’emergenza epidemiologica. “Un ruolo regolativo essenziale è affidato al contratto individuale – spiega la prof. Nicosia -. Nel disegno del legislatore il lavoro agile si basa su un accordo, quindi sul consenso,  e  la prestazione lavorativa solo in parte si svolge all’esterno dei locali aziendali”. Soprattutto, l’accordo individua “i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche“.

La negoziazione su tempo di non lavoro e disconnessione rimane quindi cruciale nell’accordo col datore di lavoro. “La norma in Italia esiste – aggiunge la docente –, va solo riempita di contenuti, e il luogo in cui questo può accadere è l’accordo individuale, sorretto dalla dimensione sindacale. Le disposizioni sono volutamente generiche, per evitare di creare schemi troppo rigidi. La questione è delicata – continua – l’essenza stessa del lavoro agile ha due finalità precise: incrementare la produttività e agevolare la conciliazione vita-lavoro”.

Lo stress causato dal restare sempre connessi e dal tentativo mancato di conciliazione tra vita privata e lavoro, del resto, non conviene a nessuno. “Si tratta soprattutto di uno stress ‘di genere’ – conclude l’esperta di diritto -. Varrebbe la pena approfondire certamente la questione del ‘rientro a casa’ delle donne con tutto quello che questo ha comportato durante il lockdown emergenziale”.

Il benessere del lavoratore e il capitale umano nelle PA

Se il privato arranca nella regolamentazione del diritto alla disconnessione, la pandemia ha portato un’evoluzione nella Pubblica amministrazione, malgrado i luoghi comuni. Lo conferma con convinzione la prof. Nicosia, da tempo studiosa del settore: “I nostri apparati sono popolati da risorse umane di valore, anzi da un vero ‘capitale umano’, che va solo sostenuto con buone regole. Mi piace usare questa endiadi, capitale umano, la uso da molto tempo; ho sempre creduto nel (e sostenuto il) valore delle persone nelle PA, anche in periodi in cui queste affermazioni si ponevano in contro tendenza”.

Oggi “capitale umano”, ma pure il valore delle persone, sono concetti che ricorrono in numerosi documenti: dalle Linee Programmatiche firmate dal ministro Brunetta al Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale, fino al PNRR, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. A cambiare, però, è anche la considerazione del lavoro da remoto. Le linee guida sul Piano Organizzativo del Lavoro Agile (POLA), adottate a dicembre 2020, assieme a Linee programmatiche, Patto e PNRR, potrebbero portare a una nuova endiadi: benessere produttivo.

“Le regole scritte nel POLA sembrano tenere in considerazione quella che chiamerei la ‘salute emotiva’ del lavoratore da remoto – spiega la prof. Nicosia –. Nella valutazione delle performance agili vengono presi in considerazione indicatori che pesano il livello di soddisfazione di chi si misura con questa modalità di lavoro, in significativa assonanza con norme già esistenti. In particolare, l’art. 7 del d.lgs 165/2001 in cui è previsto che le PA garantiscano un ambiente di lavoro improntato al benessere organizzativo“.

Il POLA, pur a fronte delle nuove disposizioni di cui al decreto di aprile di quest’anno, sarà essenziale per regolare il lavoro agile nella PA dopo la pandemia, ma i primi segnali di adeguamento sistemico iniziano ad arrivare. È il caso, per esempio, dell’Università Federico II di Napoli, dove è stato adottato a gennaio. Qui, spiega la docente, che ha partecipato al gruppo di lavoro per la relativa implementazione, uno schema di accordo individuale prevede che “è sempre assicurato il diritto del/la dipendente alla disconnessione dalle strumentazioni di lavoro dalle ore 20:00 alle ore 7:30”.

Orari d’ufficio convenzionali, lavoro da remoto e smart working sembrano però ancora destinati a convivere. C’è un punto di convergenza tra queste modalità? “Non posso che ravvisarlo nel connubio fra rilancio del benessere del lavoratore da remoto e bilanciamento fra tempi di vita e di lavoro – conclude la docente -. Il dirigente dovrebbe diventare un vero manager da remoto e anche un e-leader, in grado di maneggiare le competenze digitali manageriali, pronto a scommettere sul benessere dei propri collaboratori. Un manager capace di micro-organizzare e gestire mettendo nel conto, per esempio, che per un paio di giorni la settimana alcuni collaboratori lavorino da remoto, e magari si debbano disconnettere in certi momenti, per recuperare energia e motivazione, senza che questo implichi deminutio sotto il profilo economico o di carriera”.

A proposito dell'autore

Domenico La Magna

Nato a Catania, classe '95, si è laureato in Filologia Moderna all'Università di Catania nel 2020 con una tesi su Calvino e l'editoria. Inizia a collaborare con LiveUnict da ottobre 2017. Appassionato di politica, segue con particolare attenzione i temi riguardanti l’Unione Europea e l’ambiente. Frequenta il Master di 2° Livello in Professione Editoria all'Università Cattolica di Milano.