Il coronavirus non è la prima pandemia che affronta l’umanità. Peste, vaiolo, influenza spagnola… sono innumerevoli i mali che nei secoli hanno colpito l’uomo, causando morte e paura. A queste malattie è corrisposta, oggi come allora, un’espansione del potere governativo e una limitazione delle libertà personali. La stessa parola ‘quarantena’ viene dall’isolamento forzato di 40 giorni che intorno al 1348, con l’espandersi della Peste nera in Italia, imposero i governatori di Venezia per rallentare i contagi. Oggi però siamo abituati a un regime politico e a una libertà personale del tutto diversa e, come Cicerone di fronte agli abusi di Catilina, siamo costretti a chiederci: fino a che punto?
Nessuno vuole rischiare il contagio o trasmetterlo ai propri cari e le misure di isolamento, da rispettare in ogni caso, sono state accolte in genere di buon grado. Allo stesso tempo, tuttavia, c’è anche chi chiede di prendere iniziative ancora più forti o, mosso dalla paura, si lancia in assurde “cacce all’untore”. Per comprendere questi fenomeni, LiveUnict ha intervistato il professore Gianni Piazza, docente di Sociologia dei fenomeni politici presso l’Università di Catania.
Libertà personali e salute pubblica: un confine labile
Era il 20 marzo, nemmeno una settimana fa, quando in uno dei suoi consueti video-messaggi il governatore della Campania Vincenzo De Luca affermava che era tempo di smetterla con le mezze misure e di militarizzare l’Italia. Appena quattro giorni dopo, il premier Conte ha autorizzato le Regioni a disporre misure ancora più stringenti rispetto a quelle del governo, aprendo di fatto la strada a ulteriori restrizioni. Una misura controversa, su cui l’opinione pubblica è divisa tra chi applaude alla lotta agli ‘incivili’ e chi vi vede un campanello d’allarme.
“In questa situazione di emergenza sanitaria, secondo alcuni un vero e proprio “stato di eccezione” di fatto, il confine tra le libertà personali e la salute pubblica è decisamente labile – esordisce il professore -, difficile da stabilire. Possiamo dire che in questa situazione il piatto della bilancia pende decisamente dalla parte della salute pubblica con la compressione di alcuni diritti anche costituzionali. Uno squilibrio giustificato dall’emergenza in atto, ovviamente. Tuttavia, penso che i diritti relativi alla libertà personali non debbano essere ulteriormente compressi e che la ‘militarizzazione dell’Italia’ non sia la soluzione da perseguire, né in termini di efficacia (oramai sono poche le persone che si muovono senza un serio motivo), né tanto meno in termini politici e giuridici.
I militari in un regime democratico non dovrebbero occuparsi di ordine pubblico, anche se già in Italia c’erano i militari dell’operazione “strade sicure” che adesso sono stati “riconvertiti” per i posti di blocco.Tra l’altro si segnalano anche alcuni abusi da parte di chi a volte non conosce nemmeno la normativa (anche se è vero che cambia in continuazione) che dovrebbe applicare, o quantomeno la interpreta in maniera “restrittiva”. Inoltre nel nostro paese la militarizzazione di alcuni territori è già un dato di fatto (vedi la presenza di molte basi militari non solo italiane)”.
“Siamo in guerra”
Vincenzo De Luca, tuttavia, non è il solo che cerca di adottare pugno di ferro e maniere forti. Siamo in guerra, dopotutto. Questa affermazione, ripetuta da diverse figure della politica internazionale fino a governatori regionali e locali, è spia di una strategia comunicativa aggressiva, mai così efficace. L’emergenza e la paura rendono più facile accettare misure e dichiarazioni che, in tempo di pace, non sarebbero nemmeno pensabili. Fino a quanto si potrà tendere l’elastico, non solo rinunciando ma addirittura invocando la privazione delle proprie libertà personali?
“Direi in maniera proporzionale alla percezione del pericolo – risponde il docente -. Più si ha paura di un pericolo, in questo caso reale, che tra l’altro non si vede ma di cui si vedono gli effetti quando si manifesta, e più cresce la richiesta di limitazioni ulteriori delle libertà personali da parte della popolazione (non tutta però). Difficile, in una situazione come questa, riuscire a pensare e ragionare lucidamente, anche se a mio parere occorre continuare a farlo e, per questo, le libertà di espressione, anche di critica, non solo e non tanto delle misure che vengono prese, quanto sul perché sia nata questa emergenza e sul come i vari sistemi politici (locali, nazionali, sovranazionali) la stiano affrontando, vadano difese e custodite”.
La ricerca del capro espiatorio
La richiesta di maggiore protezione non è l’unico effetto della paura. Accanto a questo, sul web circolano e destano preoccupazione da Nord a Sud numerosi gruppi di segnalazione “fai-da-te”, cui si accompagnano minacce e persecuzioni per chi infrange la quarantena che partono dai social e sfociano spesso in insulti e gogna mediatica. La stessa sindaca di Torino, Chiara Appendino, ha dovuto lanciare un appello a non lasciarsi contagiare dal virus della rabbia.
“L’individuazione di capri espiatori è un meccanismo sociale antico che scatta ogniqualvolta ci si trova ad affrontare una situazione di emergenza come questa – spiega al riguardo il docente -. Prima gli untori erano i migranti in generale (che sarebbero stati portatori di malattie, ovviamente in maniera infondata), poi i cinesi (che adesso invece ci mandano medici e aiuti sanitari), poi gli Italiani (quelli del Nord in particolare) sono stati considerati untori all’estero, ed ora nel nostro Paese lo sono diventati coloro che ‘vanno in giro per le strade’, anche se nella stragrande maggioranza dei casi con motivi validi e fondati.
Tra questi, in particolare i runner che sono stati considerati un pericolo, anche quando rispettavano le regole del distanziamento sociale (ma adesso con le nuove misure non mi pare ci siano più folle di runner in giro per le strade); ed anche i disabili con i loro accompagnatori sono stati pure presi di mira non pensando che alcune limitazioni ne mettono a rischio la già precaria condizione di salute.Non si vuole discutere la regola del distanziamento sociale, ma il pericolo di una ulteriore lacerazione del tessuto sociale e delle solidarietà tra le persone è reale e tangibile e, a mio avviso, occorre evitare che si scivoli sempre più verso meccanismi sociali individualizzanti, del tipo ‘si salvi chi può e ognuno cerchi di salvarsi da sé’, e che si eviti di trovare un nemico visibile (qualunque esso sia) per combattere quello invisibile.
Il coronavirus può portare a una involuzione autoritaria della democrazia?
Non si tratta di una provocazione, né di una fantasia distopica sul modello orwelliano. Il pericolo potrebbe già trasformarsi in realtà in Ungheria, una democrazia controversa già di suo eppure Stato membro dell’UE. Infatti, il governo di Budapest ha inviato al Parlamento un disegno di legge col quale il primo ministro Viktor Orbán riceverebbe pieni poteri a tempo indeterminato per fronteggiare l’emergenza COVID-19. Uno scenario simile in Italia sarebbe con quasi ogni probabilità impossibile da replicare. Eppure, come dichiara lo stesso prof. Piazza: “il rischio di un involuzione autoritaria è sempre presente nelle democrazie rappresentative, a maggior ragione in questo periodo in cui il potere politico è concentrato come non mai in poche mani.
Se una concentrazione di poteri in una fase di emergenza può avere un suo fondamento logico – continua -, è il ‘dopo’ che preoccupa. L’invocazione dell’uomo forte in periodo di emergenza potrebbe rimanere o accentuarsi anche nel periodo post-emergenza, come soluzione alla fase di ‘ricostruzione’. Tuttavia, questo è solo uno dei pericoli da evitare. Occorrerebbe anche ripensare alla situazione globale che ci ha portato a questa emergenza sanitaria, dalla riduzione generalizzata del welfare socio-sanitario, all’inquinamento ambientale e alle crescenti diseguaglianze sociali causati dal modo di produzione, solo per fare alcuni esempi.
Infatti, la crisi pandemica può essere considerata anche come una cartina di tornasole della crisi del modello politico-socio-economico vigente, non solo in Italia ovviamente, e le politiche neoliberiste che vengono implementate da decenni. Una crisi complessiva che difficilmente si supererà riproponendo lo stesso modello e le stesse politiche. Pensare che passata l’emergenza si debba soltanto ‘ritornare alla normalità precedente’, come se la situazione precedente non avesse nulla a che fare con l’attuale emergenza, sarebbe miope e poco lungimirante. Come da più parti si comincia a sostenere – anche se timidamente – ‘non vogliamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema‘”.