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“Spik Inglish” e altri strafalcioni: gli errori piĆ¹ frequenti degli italiani in inglese

I dati Eurostat affermano che solo il 16% degli italiani ĆØ bilingue. Ecco dove casca lā€™asino nellā€™approccio alla lingua di Shakespeare e perchĆ© dovremmo preoccuparcene.

Lā€™inglese ĆØ la lingua ufficiale degli scambi internazionali, delle Nazioni Unite, dellā€™Unione Europea. Ci sono termini inglesi che sono sempre piĆ¹ presenti nel linguaggio comune, soprattutto tra i giovani e attraverso i social media. Lo stesso linguaggio aziendale ĆØ un trionfo di prestiti e anglicismi. PerchĆ© allora insistiamo in un inglese maccheronico che ci fa fare tante brutte figure allā€™estero (e ahimĆØ anche in contesti ufficiali)?

Unā€™indagine Eurostat del 2016 ha rivelato che solo il 16% degli italiani padroneggia una lingua straniera oltre lā€™italiano. Ma il 98,4% degli studenti italiani apprende lā€™inglese a scuola. Dove sta lā€™inghippo? Secondo il parere di esperti, la scuola italiana ha fallito nellā€™implementare il metodo giusto. Troppi libri, troppe grammatiche, pochissima pratica. Il risultato ĆØ una lingua appresa in teoria e sconosciuta nella pratica.

Gli italiani non sanno applicare le frasi giuste per i contesti giusti (“Excuse me” invece di “Sorry“, quando uno vuole scusarsi, e invece richiama solo lā€™attenzione), e non sanno “pensare” nella lingua dā€™arrivo, dando origine a traduzioni fantasiose come “Outside service” per indicare uno sportello fuori servizio.

Se lā€™italiano ĆØ una lingua dove quasi tutti i suoni sono pronunciati come sono scritti, lā€™inglese non lo ĆØ affatto. Il risultato ĆØ “Tenk iu” o “Spik Inglish?”, per non parlare dei suoni che non sappiamo imitare, come la famosa h aspirata (“hungry” diventa “angry“, cioĆØ arrabbiato, e a quel punto il vostro interlocutore si chiederĆ  se vi ha in qualche modo offesi o siete semplicemente isterici).

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Un capitolo a parte sono i false friend, ovvero le parole che sembrano analoghe alla nostra lingua ma vogliono dire in realtĆ  tuttā€™altro. ƈ il caso di “ape“, che significa scimmia (i primati, per lā€™esattezza) e mai ape, cioĆØ “bee”, o “parents” per indicare i parenti al posto dei genitori (e “janitors” sono gli inservienti).

Se volete emanciparvi da guide turistiche, traduttori Google o semplicemente lā€™inglese giova al vostro curriculum, continuate a studiare concentrandovi piĆ¹ sulla pratica che la teoria. Viaggiate, se potete, o iscrivetevi a dei corsi privati. Se non ne avete la possibilitĆ  cā€™ĆØ una quantitĆ  sterminata di corsi online addirittura scaricabili su internet. Neanche le app fanno eccezioni, con Babbel e Duolinguo tra le piĆ¹ gettonate. E in piĆ¹ ascoltate musica, guardate le serie e i film che Netflix mette a disposizione in lingua originale e sottotitoli.

Insomma, basta armarsi di pazienza e buona volontĆ  e lā€™apprendimento non risulta poi cosƬ difficile. La difficoltĆ  vera per molti italiani sta nel liberare la mente da pregiudizi nocivi come concepire le lingue come difficili o pericolose in quanto “straniere”.