Il ferragosto ci aveva deliziati con una delle più prestigiose classifiche universitarie mondiali, la Shanghai Jiao Tong University (Arwu). In questa classifica, a spopolare senza nessun indugio, è l’americana Harvard University seguita a ruota dalla Standford. Poi il Mit e Berkeley, Cambridge e Princeton. Sedici americane, tre inglesi e una svizzera (l’Istituto di tecnologia di Zurigo) sono le migliori venti università del mondo.
Per quanto riguarda le università italiane, su 500, cinque quest’anno si trovano tra il 150 e il 200esimo posto e sono: la Sapienza, l’Università di Milano, e poi Padova, Pisa e Torino. Posizioni scomode ma che sono confermate da criteri cinesi ben stabili: numero di ex studenti che hanno preso il Nobel, numero di premi Nobel che fanno parte del corpo insegnante, numero di ricercatori con maggiori citazioni scientifiche e di studi pubblicati nelle riviste specializzate.
Dopo questa piccola premessa, ci occuperemo adesso della classifica in cui l’Italia sembra proprio eccellere. A pensare di stilare una controclassifica è stato il professore di Ingegneria a Pavia e collaboratore della rivista online Roars, Giuseppe De Nicolao. Quest’ultmo ha provato ad aggiungere un altro indicatore ai dati raccolti a Shanghai, stilando così una classifica «dell’efficienza delle università che mettesse a confronto i risultati con la spesa», dividendo cioè i costi di gestione di ogni università per il numero di punti raggiunti.
Il risultato ovviamente ha lasciato un po’ l’amaro in bocca. Mettendo, infatti, a confronto i primi venti atenei della classifica Arwu e i venti atenei italiani che vi sono classificati, sono quattro le università italiane a primeggiare: la Scuola Normale di Pisa, l’Università di Ferrara, Trieste e Milano Bicocca, mentre a reggere il confronto dell’efficienza tra le grandi università ci sono solo Princeton e Oxford.
L’autore della controclassifica, ovviamente, ha avuto in mente uno scopo, ossia rimarcare che il sistema italiano è sottofinanziato. De Nicolao spiega così: «nel suo complesso non è meno efficiente di quelli delle maggiori nazioni straniere. Harvard per le spese correnti ha un costo che è pari al 40 per cento dell’intero fondo per l’università, in altre parole ventimila studenti hanno a disposizione poco meno della metà di quello che da noi finanzia un sistema con oltre un milione e mezzo di studenti. Si tratta anche di uno scatto di orgoglio a difesa del lavoro degli atenei che all’apparire delle classifiche internazionali diventano bersaglio di critiche e polemiche. L’università è come un’automobile può anche essere una super-car ma se non avesse benzina non andrebbe avanti e da questo non si prescinde».
Perché quindi l’Italia crea talenti che poi vanno a trovare un brillante futuro lavorativo solo ed esclusivamente all’estero? Ci sono le basi per formare grandi personalità ma non ci sono opportunità adeguate. Su questo punto si potrebbe aprire un libro a parte, del quale però, il lieto fine è un traguardo ancora lontano. Un investimento nei giovani è sicuramente un investimento nel futuro della nazione stessa. Un pensiero così semplice quanto ovvio. Ai grandi politici l’ardua sentenza.