Catania, febbraio 2025 – La città è in fermento. I balconi si riempiono di bandiere bianche e rosse, le strade odorano di cera fusa e torrone appena spezzato. Il frastuono delle candelore si mescola al vociare della folla che, come ogni anno, attende il passaggio della sua Santa. Sant’Agata è tornata tra la sua gente, e con lei il carico di devozione, tradizioni e leggende.
Ma un’ombra affascinante si aggira tra la folla, un’eco del passato che si insinua nelle celebrazioni. Le ‘Ntuppatedde. Una tradizione scomparsa da oltre un secolo, eppure così viva nell’immaginario collettivo, tanto da tornare ciclicamente dal 2013, grazie alla regista Elena Rosa, come simbolo di un bisogno ancestrale: la libertà femminile.
Chi erano le ‘Ntuppatedde?
Provate a immaginare una Catania del passato, una città in cui le donne non potevano camminare sole per le strade senza essere giudicate, in cui tutto era regolato dal controllo maschile, in cui un semplice sguardo poteva essere frainteso e trasformarsi in condanna sociale.
Ora, immaginate quei giorni di festa in cui le regole si allentavano, in cui il rigore cedeva il passo alla confusione della folla, alla musica, all’energia popolare. Era allora che comparivano le ‘Ntuppatedde. Coperte da un lungo mantello scuro, il volto nascosto dietro un velo con due piccoli fori per gli occhi, le donne diventavano irriconoscibili. Potevano finalmente passeggiare libere, avvicinarsi agli uomini senza essere riconosciute, scambiare parole proibite, accettare dolci e regali dai corteggiatori. Per una notte, erano padrone di sé stesse.
Era un gioco? Un rito? Forse un atto di ribellione mascherato da tradizione.
La libertà celata dietro un velo
La parola ‘Ntuppatedda deriva dal siciliano tuppa, che indica la membrana che chiude il guscio delle lumache. Come le chiocciole si rintanano nella loro conchiglia per proteggersi, così le donne si nascondevano sotto il mantello per vivere un piccolo momento di libertà. Ma sotto quel velo non c’era solo mistero, c’era una protesta silenziosa. In una società in cui l’identità di una donna era sempre legata a quella di un uomo – padre, marito, fratello – per una volta il loro volto spariva, e con esso spariva il controllo maschile.
La città era loro.
Potevano sfiorare un uomo senza che lui sapesse chi fosse. Potevano ridere senza essere giudicate. Potevano esistere senza essere definite da nessuno.
Sant’Agata: la martire dal velo rosso
La figura di Sant’Agata è centrale nella storia e nell’identità di Catania. Nata in una nobile famiglia cristiana, scelse fin dall’adolescenza di consacrarsi a Dio, ricevendo dal vescovo il velo rosso, simbolo delle vergini consacrate. Durante le persecuzioni sotto l‘imperatore Decio, nel 250, la bellezza di Agata attirò l’attenzione del crudele proconsole Quinziano, che cercò di piegarla con la violenza e l’imprigionò in un bordello. Ma Agata rimase salda nella fede. Subì torture disumane, tra cui lo strappo dei seni con le tenaglie, ma non rinnegò mai Dio.
Secondo la tradizione, una notte San Pietro le apparve e guarì miracolosamente le sue ferite, ma Quinziano, furioso, ordinò che fosse bruciata sui carboni ardenti. Un terremoto scosse la città, interpretato dal popolo come un segno divino. Agata spirò il 5 febbraio 251, diventando patrona di Catania dopo che, nel primo anniversario della sua morte, il suo velo fermò miracolosamente una colata lavica dell’Etna.
Oggi, la sua festa è una delle più grandi celebrazioni religiose nel mondo, dopo la Settimana Santa di Siviglia e la Festa del Corpus Domini di Guzco in Perù, unendo fede, tradizione e cultura popolare.
Il fascino e il mistero delle ‘Ntuppatedde secondo Verga
A raccontarci il fascino di queste enigmatiche figure è anche Giovanni Verga, che nella sua novella La coda del diavolo (inclusa nella raccolta Primavera e altri racconti, 1877), così le descrive:
“Il costume componesi di un vestito elegante e severo, possibilmente nero, chiuso quasi per intero nel manto, il quale poi copre tutta la persona e lascia scoperto soltanto un occhio per vederci e per far perdere la tramontana, o per far dare al diavolo (…) Dalle quattro alle otto o alle nove di sera la ‘ntuppatedda è padrona di sé (cosa che da noi ha un certo valore).”
Il brano verghiano cattura l’essenza delle ‘Ntuppatedde, sottolineando come, in quelle poche ore di anonimato, le donne avessero un potere inedito: quello di essere libere, di giocare con gli sguardi e di sovvertire, anche solo per una notte, le rigide regole sociali.
Dal divieto all’oblio
Ma un gesto tanto semplice era anche rivoluzionario, troppo per essere tollerato. Nel 1693, dopo il devastante terremoto che distrusse Catania, le autorità proibirono il travestimento, temendo che sotto quei veli si nascondessero donne di malaffare. Gli “occhiali” – i veli che coprivano completamente il volto – furono banditi. Le ‘Ntuppatedde resistettero per un altro secolo, fino a quando, nel 1868, l’ultima donna che osò travestirsi fu insultata e cacciata via.
Da quel momento, il silenzio.
Le ‘Ntuppatedde furono dimenticate, archiviate come un’usanza del passato. Ma il loro spirito ribelle non è mai davvero scomparso.
Un ritorno simbolico: Il velo nella contemporaneità
Oggi, in un’epoca in cui le donne non hanno più bisogno di travestimenti per affermare la propria libertà, la figura delle ‘Ntuppatedde torna a vivere sotto forma di performance artistica e gesto simbolico.
Negli ultimi anni, durante le celebrazioni Agatine, alcune donne hanno scelto di indossare lunghi abiti bianchi e coprirsi il volto con un velo anch’esso bianco e di confondersi tra la folla, non più per nascondersi, ma per manifestarsi.
Danzano tra i devoti, sventolano garofani rossi, simbolo di passione e del martirio di Sant’Agata, sfiorano la gente senza svelare la loro identità. Non è nostalgia, è un promemoria. Un modo per dire che la libertà non si conquista una volta per tutte, ma va affermata ogni giorno, in ogni spazio. Le ‘Ntuppatedde di oggi non devono più coprirsi per esistere. Ma il loro spirito vive in ogni donna che rifiuta di essere definita dagli altri, in ogni gesto di autodeterminazione, in ogni sguardo che sfida le regole imposte.
Sant’Agata ha donato il suo corpo per difendere la sua libertà. Le ‘Ntuppatedde, a modo loro, hanno fatto lo stesso. Forse non è un caso che, nel cuore della festa più grande di Catania, tra luminarie e preghiere, torni a vivere anche la loro leggenda.
Perché la libertà è come il fuoco delle candelore: una volta acceso, non si spegne mai davvero.