Da Wikileaks al ban di Trump: la cybercensura è uno dei mezzi che permette ai governi di bloccare e filtrare l'informazione. Ne parliamo con il prof. Piazza, docente al Dipartimento di Scienze Politiche di Catania.
Il 12 marzo si è celebrata la giornata mondiale contro la cyber-censura, una giornata istituita da Reporters Sans frontières dal 2010. Con il termine “cyber-censura” si intende il controllo o il blocco della pubblicazione di contenuti — o dell’accesso ad essi — nella rete internet. Tale censura può essere effettuata dal governo, da società private su richiesta del governo o su propria iniziativa. Individui e organizzazioni possono essere spinti ad attuare l’auto-censura per svariati motivi morali o religiosi oppure per la necessità di conformarsi a norme sociali, a causa di intimidazioni, per evitare conseguenze legali o altro. È un tema cruciale almeno dagli anni ’80, eppure ancora oggi attira meno attenzioni del dovuto.
La censura di internet presenta molti tratti tipici delle altre forme di censura mediatica, tranne per il fatto che una volta censurato un sito web in ambito nazionale ciò non impedisce agli utenti di accedervi attraverso altre vie. La cyber-censura inoltre ammette una procedura più “specializzata” e generalmente funziona tramite il bloccaggio e il filtraggio di contenuti che può passare attraverso delle “liste nere” (quasi sempre occulte) e può essere attuata sia a livello nazionale che in modo più decentralizzato. Non è raro che dietro il messaggio “error 404 not found” si celi in realtà un atto di censura online ben riuscito mirato a far credere che si tratti di un problema del sito in questione.
Quando pionieri del calibro di Vint Cerf o Bob Kahn immaginavano Internet, avevano in mente una struttura basata sull’autonomia decisionale decentralizzata e un sistema orizzontale che sfuggisse a ogni tentativo di controllo; un modello diametralmente opposto a quello dei cosiddetti old media (media tradizionali). Ma quella che dal lato utente ha l’aria di un’imperdibile occasione per diversificare le informazioni, divulgare notizie in modo istantaneo e porre sotto gli occhi dell’opinione pubblica mondiale temi sensibili, dal lato dello Stato si rivela invece uno spinoso grattacapo da risolvere.
È indubbio che nell’era del web 2.0 gli old media hanno perso la centralità che li ha caratterizzati per gran parte del XX secolo: quotidiani e telegiornali non costituiscono più i principali mezzi di reperimento delle informazioni. In particolare nei regimi in cui le libertà d’informazione risultano ristrette, Internet si è rapidamente trasformato in un efficace strumento per aggirare l’omologazione d’opinione scandita dai media di regime. Dietro lo spettro dello sgretolamento dell’ordine costituito e della gestione del consenso si scatena l’azione del censore che, come è facilmente intuibile, colpisce principalmente siti e contenuti di opposizione politica, insieme a quelli di minoranze etniche, religiose o LGBT, altri paesi ancora bloccano qualsiasi contenuto considerato blasfemo dalla maggioranza religiosa dominante.
Ma l’arma della cyber-censura non viene utilizzata esclusivamente da quei governi reputati non-democratici, anche altri paesi con una buona reputazione democratica applicano delle misure di filtraggio in merito ad argomenti considerati contrari all’etica delle norme sociali accettate. La censura alla pedopornografia è un chiaro esempio di legittimo (e virtuoso) uso dello strumento; in altri Stati vengono censurati siti web che inneggiano al razzismo o all’omofobia, altri ancora bloccano ogni genere di contenuto pornografico.
Di sicuro uno degli atti più lesivi di cyber censura perpetrata dai governi (democratici o autoritari che siano) rimane quella che mira a imbavagliare l’informazione mascherandosi dietro la sempreverde giustificazione della “sicurezza nazionale” come è recentemente avvenuto nel corso delle “primavere arabe” in Africa settentrionale o nel caso del blocco della piattaforma WikiLeaks a seguito della pubblicazione di migliaia di dispacci diplomatici statunitensi.
Non si può però parlare di cyber censura senza includere nel dibattito i social media e il ruolo cruciale che si sono ritagliati nel campo dell’esercizio della libertà di parola. Secondo il report annuale di We Are Social sono 4,20 miliardi gli utenti attivi sui social media.
Quando le suddette piattaforme sono piombate nelle nostre vite molti vi hanno riposto larga fiducia, credendo potessero essere dei sensazionali spazi democratici, dei ‘fori pubblici digitali‘, strumenti in grado di attuare una sfrenata disintermediazione e in cui far sentire la propria voce. Di fatto in parte così è stato: da anni i social media consentono quotidianamente a miliardi di individui di esprimere la propria opinione (e il proprio dissenso), sono diventati strumenti di informazione e al contempo un terreno di gioco rilevante per la propaganda politica.
C’è però un ‘dettaglio’ di fondo che getta ombre sull’intera vicenda: queste stesse piattaforme appartengono a privati che seguono la logica del profitto. Tale dettaglio è in realtà una ragguardevole problematica da non trascurare poiché permette a pochi, pochissimi individui non eletti di avere tra le mani un interruttore che ha il potere sterminato di silenziare miliardi di utenti.
Negli ultimi anni non sono mancati gli episodi di censura privata da parte dei social per motivazioni varie che vanno dalla divulgazione di fake news a quella di frasi d’odio, uno degli ultimi esempi in tal senso è anche quello che ha suscitato più clamore, vale a dire l’oscuramento del profilo personale di Donald Trump a seguito dei tumulti di Capitol Hill (per alcuni uno dei momenti più bassi della democrazia americana). Un evento divisivo che ha portato perfino Angela Merkel a definire “problematico” l’oscuramento del profilo privato dell’allora presidente USA. “È possibile interferire con la libertà di espressione, ma secondo i limiti definiti dal legislatore, e non per decisione di un management aziendale” aveva riferito la cancelliera tedesca a gennaio tramite il suo portavoce Steffen Seibert.
Per approfondire il tema, abbiamo chiesto l’opinione di Giovanni Piazza, professore di Sociologia dei Fenomeni Politici presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania.
“Uno potrebbe dire che nessuno dovrebbe esercitare la censura e che tutti dovrebbero essere liberi di potersi esprimere – spiega il prof. Piazza –. Ebbene la mia posizione in linea di massima è questa: la libertà di espressione dovrebbe sempre essere garantita. Il problema sorge quando si va oltre la libertà d’espressione e diventa una questione di valori. È lo Stato a stabilire quando qualcosa è o non è reato e cosa censurare. Ogni comunità tende ad autoregolarsi stabilendo delle priorità e dei valori da difendere rispetto ad altri. Forse è meglio avere maggiori libertà, anche rischiando di lasciare qualche spiraglio a gruppi o persone che veicolano contenuti, a mio avviso, molto negativi, per evitare un rischio opposto e più grave, vale a dire una forte regolazione censoria nei confronti di tutto ciò che può sembrare deviante. Questo sarebbe profondamente dannoso nei confronti di tutte le forme di espressione dal basso”.
Di fronte all’ipotesi di considerare le piattaforme social alla stregua di editori il prof. Piazza si dimostra scettico: “In una casa editrice di solito ciò che viene pubblicato è preceduto da un’approvazione. La rete è molto più complicata, come si gestiscono miliardi di users che pubblicano enormi quantità di contenuti al giorno? Servirebbe uno stravolgimento della logica, permettendo un controllo dal basso dei social media che oggi svolgono sempre più la funzione di nuova sfera pubblica: un’agorà che seppur gestita da privati ha una forte rilevanza pubblica. Suggerirei una democratizzazione delle piattaforme, magari accorpando un controllo dal basso con uno dall’alto. Cosa difficilissima da realizzare”.
“C’è stata molta ipocrisia da parte delle piattaforme – dichiara il professore riguardo agli eventi di Capitol Hill –. Per quattro anni hanno accettato qualunque eccesso di Trump, ma nel momento in cui il vento è cambiato hanno improvvisamente mutato atteggiamento. Di certo l’assalto a Capitol Hill è stato un evento di importanza storica rilevante che ha contribuito al ban sui social. Inoltre mi verrebbe da dire che in fondo l’istigazione all’assalto del Campidoglio non sia avvenuta esclusivamente tramite i social media. A giocare un ruolo cruciale è stato infatti l’uso di un metodo antico come il comizio avvenuto poco prima dei disordini. È lo stile dei populisti: da un lato il rapporto face to face con i comizi dall’altro l’utilizzo ben organizzato e capillare dei social”.
“Non sono assolutamente un suo estimatore, ma non so se il ban a Trump sia stato politicamente corretto – continua il docente – potrebbe trasformarsi in un precedente. In questo caso c’era la motivazione dell’incitamento alla violenza che nessuna piattaforma ritiene legittima, ma è chiaro che chiudere un volume di fuoco come il profilo personale di Trump è un atto forte e preoccupante. Magari oggi può far gongolare gli antagonisti politici di Trump, ma è molto pericoloso, e un giorno potrebbe essere utilizzato contro altre persone/gruppi”.
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