Da molto tempo la figura del migrante viene strumentalizzata dal dibattito pubblico e mediatico. A LiveUnict la prof.ssa Stefania Mazzone, docente di Storia delle Dottrine politiche al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania ci parla della figura del migrante nella storia e dell’importanza dell’ospitalità.
La figura del migrante è diventata sempre più presente nel dibattito pubblico e mediatico, a volte ci si perde nel marasma del linguaggio populista ed il migrante diventa lo straniero da cancellare, che ruba il lavoro e che viene-a detta di molti- mantenuto dallo stato. Dal punto di vista storico, qual è l’origine del termine “migrazione”? Quali sono le maggiori interpretazioni storiografiche?
“Per migrazioni dell’uomo si intende la diffusione umana sulla superficie terrestre e lo studio di questa su basi principalmente antropologiche, genetiche, linguistiche e socio-culturali. E tale definizione funziona per gli ominidi fino all’Homo Sapiens. Evidente, dunque, la connotazione umana e naturale del fenomeno. Dalle migrazioni degli Indo-europei fino a quelle dei Greci, stanziati nel territorio della Grecia non prima del XVII sec. a.C. non esiste storico che non le abbia raccontate. Anche Tucidide, che considerava l’autoctonia un valore, non mancò di rilevare come gli Elleni cambiassero sede e non abitassero in modo stabile quella che poi si chiamò Ellade. Stesso movimento caratterizzò i Fenici. Non si trattava di ‘colonizzazioni’ come categorie storiografiche superate ed ideologiche ancora sostengono, ma di vere e proprie ‘migrazioni’ dalle quali ogni civiltà è attraversata.
I Greci emanavano addirittura bandi per organizzare spedizioni di piccoli gruppi di popolazione disagiata guidati da un aristocratico, l’ecista, che nelle terre d’approdo avrebbe “rifondato” la comunità (che perdeva la cittadinanza d’origine). Su questi argomenti Emilio Galvagno ha fornito importanti contributi storiografici, per rimanere nell’Ateneo di Catania. Molta parte di questa storia riguarda anche la nostra Sicilia, per rimanere solo nell’ambito Mediterraneo. Così si ricostruiscono le forme di contatto tra Greci e indigeni in Sicilia, e i relativi processi di acculturazione, così come studiati da Sonia Nicotra. Poi, attualmente, si assiste ad un rifiorire dell’interesse intorno alle analisi comparative con l’impero romano, continuando a fare i conti con il noto scontro interno alla grande storiografia ottocentesca tra l’ottica delle “migrazioni dei popoli”, di matrice tedesca, e le “invasioni barbariche” della storiografia romanza, per quanto riguarda il rapporto tra i germanici e l’impero romano. Una visione, ancora una volta “ideologica” e per certi versi anacronistica della storiografia ha, dunque, attribuito la connotazione negativa e nichilista di “barbarie” a ciò che, semplicemente, è cultura prestatale.
Anche di queste questioni e del rapporto tra Urbanitas, integrazione e cittadinanza in epoca romana, l’Ateneo di Catania ha uno dei più qualificati studiosi in Orazio Licandro. Anche in epoca moderna, si pensi ai casi che ci riguardano dei genovesi a Messina, studiati da Maria Concetta Calabrese, o della diaspora greco-albanese in Sicilia di cui parla Paolo Militello, non dobbiamo fare l’errore di pensare che le migrazioni riguardarono solo le “conquiste” spagnole. Così come la stessa attenzione dovremmo riporre alla riqualificazione in termini di “migrazioni” al fenomeno delle “emigrazioni” che tanto riguardano la nostra storia presente e passata. Basterebbe pensare alle migrazioni ottocentesche studiate da Alessia Di Stefano e Jacopo Torrisi, per non dimenticare le storie degli “esuli” e degli “espatriati” politici, nell’ambito delle medesime esperienze migratorie d’oltreoceano. Questi brevi cenni per delineare una visione complessa e strutturale delle migrazioni in termini spaziali dell’umanità, non dimenticando i significati metaspaziali che, ad esempio, il nomadismo quale posizione antidentitaria, pone concettualmente e politicamente”.
Il rapporto con lo “straniero” diventa di disagio, poco malleabile e soprattutto viene meno l’ospitalità e l’integrazione tipici di un sistema democratico. Nella storia del pensiero contemporaneo, quali sono le relazioni sociopolitiche con l’altro, con lo straniero?
“La mobilità è uno degli elementi caratterizzanti i processi della modernità e l’interazione è data dalla contraddizione delle dinamiche di avvicinamento e di allontanamento che la mobilità comporta, secondo la lezione di Simmel. Lo straniero costringe la società a ridefinirsi continuamente: la società necessita dello straniero per non perdere la propria identità, i propri confini. Questo è il passaggio per il quale lo straniero diviene nemico e tale deve rimanere per la conservazione degli assetti sociali esistenti. Sul ruolo del nemico e sulla legittimazione del sovrano rimane centrale la teoria giuridica che inaugura il paradigma realistico proprio dalla crisi del liberalismo, giungendo alla definizione della sovranità quale “decisione sullo stato d’eccezione” data da Carl Schmitt nel 1922. Se dal piano antropologico e sociologico ci si sposta a quello storico si evince che la tipologia dello straniero rientra in certi schemi elaborati da una classe dirigente in determinati momenti storici, con effetti deleteri sul comportamento collettivo.
Centrale, per la nostra storia recente, è il periodo che intercorre tra l’unificazione e la fine della seconda guerra mondiale, quando la storia d’Italia si caratterizza per l’elaborazione e la circolazione di ideologie e pratiche razziste nei confronti dei nemici interni ed esterni. Dall’ostilità dei settentrionali verso i meridionali, da quella degli italiani verso i tedeschi, gli slavi, i libici, gli abissini, gli ebrei. Il mito indoeuropeo circola sin dagli anni Sessanta del XIX secolo in funzione antisemita e antimeridionale, così come la contrapposizione tra “razze storiche” e popoli “senza storia” si diffonde negli anni Settanta e Ottanta contro la minaccia di “invasioni mongoliche”, contro gli slavi “barbari”, privi di “ricordi” e “istituzioni” e contro africani e meridionali (dove il Mezzogiorno è senza mezzi termini “Affrica”, anzi i suoi “caffoni” appaiono meno civili dei “beduini”), e l’Africa è a sua volta ridotta a una icona identica al Mezzogiorno d’Italia, ci dice Burgio. Andando alla dimensione più filosofica e antropologica, il tema centrale sembra essere quello dell’abitare la cui origine latina ricorda l’area semantica della forma frequentativa di habeo, “ho abitualmente”, identificazione e possesso di un luogo, come ricorda Donatella Di Cesare.
Una dimensione dello spazio e del territorio che i sociologi urbanisti, come Carlo Colloca, affrontano in termini di analisi della distribuzione delle persone negli spazi chiusi e gestione della circolazione negli spazi aperti. Sembra evidente che la città come luogo che abitiamo ha una dimensione storica che non abbiamo voluto o scelto, quella dimensione che ci ha visti precedere da altri uomini e che ci vedrà seguire da altri, in una catena diacronica. La dimensione sincronica ci vede vivere con una prossimità di umanità che si svincola dal proprio abitare e che mette in discussione il nostro. Umberto Curi utilizzerà la figura del ‘perturbante’ freudiano proprio in questo senso di ‘straniero’. ‘Perturbante’ è ciò che è contemporaneamente minaccia e dono, altro e me stesso, estraneo e familiare, secondo l’espressione che Freud attribuisce a Schelling, è ‘ciò che avrebbe dovuto rimanere nascosto dentro di noi e invece è affiorato’. Da qui la duplicità di senso del greco Xenos così come del latino Hostis. La stessa istituzione della Xenia, ne è chiara esplicazione, così come ci deriva da Euripide e ancor prima da Eschilo e Omero”.
Quasi sempre l’Antichità è d’attualità e ci fa riflettere sul nostro modo d’agire e di pensare. Esistono dei riferimenti antichi che possano illuminarci sul concetto d’ospitalità del migrante nella società?
“La Xenia sanciva l’obbligo di mutua assistenza attraverso l’offerta di ospitalità che veniva sancita pubblicamente. Il patto avveniva con lo scambio di symbola: piccoli oggetti spezzati in due parti che valevano da riconoscimento e prova di legami anteriormente stabiliti. Il patto era autentico se le due parti combaciavano, se unite ricomponevano l’intero attestando il legame di ospitalità. Erano tessera di riconoscimento: tessera ospitalis. Il patto rendeva così i due contraenti philoi (amici) e li obbligava al dovere di un’ospitalità reciproca. Si ricorda come uno degli esempi più pregnanti del valore del symbolon, quale testimonianza di una solida relazione di amicizia si trova nel Simposio di Platone (191 d, 4-5): ‘Ciascuno di noiè anthropou symbolon, è una metà di un uomo, spaccato come le sogliole, e d’uno fatto due [ex henos dyo]. Ciascuno per ‘compiere’ la propria identità sempre necessita di qualcuno che gli corrisponda’.
L’istituto della Xenia è ampiamente e concordemente testimoniato, dunque, lungo tutta la cultura greca. Ne troviamo traccia anche in Omero e in Platone e in età romana verrà ripreso da Ovidio nelle Metamorfosi. Certamente, l’identificazione dello straniero con il nemico e la necessità dell’invenzione del nemico entra in gioco nei termini della scrittura di uno spazio striato, confinato, che l’antichità, con il suo limes poroso, non conosceva. La nascita delle nazioni comporta, dunque, la ‘stranierizzazione’ di popoli interi, come rileva Arendt parlando di apolidi a proposito del totalitarismo, così come di hospes/hostis.
Ma noi, nomadi dell’identità e migranti degli spazi lisci, oggi, non dimentichiamo che proveniamo da una cultura dell’umanità fondata su una semplice narrazione, così per come ce la propone Pierre Levy, il filosofo dell’intelligenza collettiva e del cyberspazio: ‘Qual è la colpa di Sodoma? Negare l’ospitalità. Invece di accogliere gli stranieri, gli abitanti di Sodoma vogliono abusarne. Ora, l’ospitalità rappresenta in modo eminente la garanzia del legame sociale, un legame concepito nella forma della reciprocità: l’ospite è indifferentemente colui che è ricevuto o colui che riceve. Ognuno può diventare a sua volta straniero. L’ospitalità garantisce la possibilità di viaggiare e in generale di incontrare l’altro. Grazie all’ospitalità, colui che è separato, diverso, straniero viene accolto, integrato, compreso in una comunità. L’ospitalità è l’atto di connettere l’individuo a una collettività. Rappresenta il contrario, sotto ogni punto di vista, all’atto di esclusione'”.