Un'indagine compiuta dall'Università Bicocca di Milano mette in luce le ripercussioni sociali della didattica a distanza mostrando come abbia negativamente inciso sulla dimensione professionale delle madri.
Un’indagine sulla didattica a distanza compiuta dall’università Bicocca di Milano rivela come il 65% delle mamme ritenga che la didattica a distanza non sia compatibile con l’esercizio di una professione.
Giulia Pastori, pedagogista a capo del team che ha realizzato alla ricerca, spiega come il quesito sia arrivato a 7 mila nuclei familiari e che a rispondere doveva essere un genitore soltanto. A farlo sono state per il 94% le donne: “Già questo la dice lunga sul fatto che la cura dei figli in Italia sia ancora completamente femminile”.
Lo scopo principale della ricerca era quello di evidenziare la ricaduta sociale della didattica a distanza; sembra essere emerso un dato sconvolgente: oltre il 30% delle madri ha risposto fermamente di essere intenzionata a lasciare il lavoro per seguire i propri bambini, nel caso in cui a settembre non si possa ritornare ancora in aula.
Durante il lockdown le mamme dedicavano in media “4 ore al giorno ad aiutare i figli: praticamente un secondo lavoro part-time che si aggiunge a quello vero e alla cura della casa”. A rispondere alla ricerca sono state donne per il 98% di nazionalità italiana e con almeno un diploma superiore (41%), mentre il 38% ha una laurea, e il 15% anche un master post laurea; le intervistate si trovano mediamente in condizioni di relativo benessere e abitano soprattutto al Nord.
Il 67% di loro ha continuato a lavorare dall’8 marzo in modalità smartworking, e il 62% lo ha fatto avendo un lavoro dipendente (il 18% erano partite Iva e il 4% circa ha anche affrontato la cassa integrazione). Si tratta di madri mediamente di 42 anni che hanno 1.4 figli, in linea con il dato nazionale: per la maggioranza bambini da scuola elementare: 2855 su 7mila.
Tutte hanno giudicato negativamente la didattica a distanza, ritenendola inoperosa e strutturata in maniera poco funzionale: “La chiusura della scuola non può essere l’unica soluzione anche in caso di seconda ondata o ne va della tenuta delle famiglie e del Paese”.
Soltanto in Italia, rispetto al resto dell’Europa, la chiusura è stata prorogata sino alla fine dell’anno: questo dato, secondo Giulia Pastori “dovrebbe farci riflettere” e prendere in considerazione “il malessere dei bambini, ma soprattutto dei ragazzi: si pensa che soprattutto quelli del liceo abbiano affrontato meglio la situazione, ma in realtà proprio loro soffrono l’assenza di vita sociale, perché sono in una fase della vita in cui hanno voglia di immergersi nel mondo”.
Da qui l’appello: “Rinforzate la scuola non cerchiamo di risolvere tutto gettando il peso sulle spalle delle famiglie e soprattutto delle donne”
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