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Tra sacro e profano: il rito della sverminazione nella notte di Natale

Nella cultura popolare la notte di Natale era l’occasione per tramandare ai figli riti e preghiere di guarigione e di buon auspicio di matrice cristiana ma mai accettate dalla Chiesa. Tante erano le pratiche che le anziane insegnavano ai più giovani in questo giorno di festa. Tra queste trova spazio la figura della ciarmavermi.

Un tempo le credenze occulte della medicina popolare erano note e praticate in tutta Italia senza alcuna distinzione. Questi riti, in particolar modo, vissero più a lungo nella fascia del centro-sud. Per quanto riguarda il territorio siciliano, fu l’etnologo palermitano Giuseppe Pitrè che raccolse le sue ricerche in “Medicina popolare siciliana”, pubblicato per la prima volta nel 1896. Oggi, con l’avvento del progresso in ambito tecnologico e medico, queste tradizioni si sono perse ed è raro incontrare chi ancora le conosce e sia in grado di mettere a disposizione la propria arte verso il prossimo a titolo gratuito per fede. Ancora più rare sono le richieste da parte di chi ci crede veramente.

Spesso le protagoniste della medicina popolare erano le donne, chiamate “guaritrici”. Gli uomini guaritori, invece, erano in minoranza perché erano impegnati nei lavori nei campi o nelle cave. Le donne, dedite alla cura della casa e dei figli, avevano più tempo da mettere a disposizione. Ma non tutte le donne erano destinate all’investitura di guaritrice: le stesse anziane selezionavano con cura i loro testimoni del sapere tra gli stessi membri della famiglia o del vicinato, in base al rapporto e alla fiducia che riponevano nelle future generazioni. L’etica del dono, dunque, stava alla base degli insegnamenti. La maggior parte delle preghiere erano insegnate ai prescelti la notte di Natale e questi ultimi avevano l’obbligo di impararle a memoria entro la fine della stessa notte.

Tra i vari riti popolari da apprendere la notte di Natale vi era quello della sverminazione. Il taglio dei vermi, noto a Catania come “fari i cusazzi”, non ha radici fisse perché è presente, seppur con forme e modi diversi, in diverse zone d’Italia, come Liguria, Basilicata e Calabria, ma soprattutto in Sicilia. In origine la pratica era destinata ai bambini non battezzati, che manifestavano evidenti segni di turbamento fisico, come mal di pancia e pianti frequenti, dovuto a tutto ciò che faceva parte dello “scanto”, parola con cui generalmente si sintetizzavano grida, rimproveri o maltrattamenti nei confronti del neonato. Successivamente si estese a tutti i bambini che mostravano sintomi del genere.

Avere il verme nella pancia” era una perifrasi nata da un modo figurato che si impose nella cultura popolare per rendere l’idea di dolore che il bambino doveva provare e traeva origine dai parassiti intestinali, causati dall’assunzione abbondante di carne animale fresca e non cotta, conservata in condizioni igieniche precarie. Il verme figurato era espulso allo stesso modo del parassita intestinale, cioè attraverso le feci. Affinché ciò fosse possibile, il verme necessitava di una sorta di incoraggiamento per arrivare dall’intestino ai reni: una preghiera popolare ripetuta tre volte.

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I modi e le formule variano da città in città, più che da regione a regione. Le testimonianze viventi ci indicano oggetti usati come amuleti più disparati: chi l’aglio, chi un bicchiere di vetro vuoto, chi una tazza sporca di caffè, chi preparava intrugli dal cattivo sapore con ingredienti misteriosi. Infatti, una testimonianza recente la ritroviamo nella pellicola cinematografica “Viola di mare” di Donatella Maiorca: è proprio in una delle scene iniziali del film che un’anziana donna pratica l’atto della sverminazione con un bicchiere di vetro, poggiandolo sulla pancia della protagonista all’altezza dell’ombelico.

“Cusazzi” è un termine tipico catanese e fu dato alla pratica delle ciarmavermi proprio dai genitori che portavano i loro figli “scantati” a casa della guaritrice. Veniva usato in senso dispregiativo perché anche allora si riteneva una pratica figlia della stregoneria e che poteva fare paura. “Ciarma”, invece, significa incanto. Nel corso degli anni la Chiesa ha sempre preso le distanze da questi riti. Particolare fu il caso del Padre Nostro di San Giuliano, ritenuto dai religiosi come eresia e bestemmia, se recitato. Le liturgie erano tutte in latino, la lingua scelta dalla Chiesa. Soltanto dopo il Concilio Vaticano II tra il 1962 e 1965, come si legge nella Sacrosantum Concilium, si stabilì che la liturgia poteva essere detta nella lingua ufficiale di ogni Paese in cui si svolgeva.

Le ciarmavermi catanesi solitamente si servivano di olio crudo extra vergine di oliva, in cui ingevano l’indice. Successivamente poggiavano il dito sull’ombelico del bambino e recitavano la loro preghiera. Ci sono diverse attestazioni, la più comune è una preghiera popolare che rimanda alla Settimana Santa ed era: “Lùnniri ssantu, Màrtiri ssantu, Mèrcuri ssantu, Iòviri ssantu, Vènniri ssantu, Sabbatu ssantu, a Ruminica ri Pasqua e stu vermi ‘nterra casca.”

Un’altra attestazione fa riferimento alla storia di Giobbe. Infatti, Giobbe, personaggio biblico messo alla prova da Satana, fu costretto a sopportare atroci sofferenze fisiche e non, per dimostrare la propria integrità morale a Dio. Tra queste sofferenze c’è anche un’ulcera allo stomaco o un episodio di verminazione, a seconda della traduzione di riferimento. Proprio questo episodio viene traslitterato nella cultura popolare siciliana con la seguente formula: “Santu Giobbi na na rutta stava, cu lacrimi di sangu ca cianceva. Passau Gesù Cristu e ci rissi ‘Giobbi chi hai ca chianci accussì fotti? Li vemmi mi stanu manciannu. E picchi non ti licemmi (fai passare, calmare)? Maestro chi sapia. La filici (la felce) non fa ciuri, lu pisci non avi pummuni, casca lu vemmu, di lu santu Simuni.

Quest’ultima formula era recitata per tre volte col dito unto di olio sull’ombelico, tre volte col dito sulla tempia destra e tre volte sulla tempia sinistra, movimenti accompagnati da tre Credi. Alla fine venivano effettuati ulteriori segni della croce sulla pancia del piccolo, gesto che in modo figurato imitava un coltello che tagliava questi vermi in più parti per ucciderli. Se erano presenti vermi nello stomaco del bambino, si sentiva un leggero formicolare al dito.

Sul legame tra Giobbe e la pratica delle ciarmavermi ci sono delle lacune ancora oggi non chiare, come il ruolo della figura di Simone alla fine, ma soprattutto assai dubbia è la presenza di Gesù in questo incontro. Infatti, la storia di Giobbe è narrata all’interno dell’Antico Testamento, prima della nascita di Cristo. Sembrerebbe trattarsi di un errore dovuto all’ignoranza popolare dei testi biblici, errore assai comune perché scambia la figura di Dio per quella di Cristo, proprio per l’appellativo di entrambi che è Signore. Inoltre sono davvero poche le attestazioni nella cultura popolare in Italia che riportano formule simili dedicate alla storia di Giobbe.

Il taglio dei vermi è una delle tradizioni popolari in rischio di estinzione a causa della sua rara applicazione e richiesta, da parte di genitori che lo ricordano dai loro antenati. Allo stesso tempo è proprio grazie all’attaccamento morboso alla religiosità popolare tipico dei siciliani che la nostra terra può tramandare tradizioni del genere.

A proposito dell'autore

Maria Regina Betti

Laureanda in Lettere Classiche, appassionata di luci rosse e di rullini, si dedica alla fotografia digitale, analogica e istantanea.