Il più celebre fra tutti i romanzi ambientati nella provincia etnea è l’opera verghiana per eccellenza “I Malavoglia”. Chi a scuola, chi per piacere, quasi tutti hanno letto almeno una volta nella vita o perlomeno conoscono la storia della Famiglia Toscano, denominata Malavoglia.
Il romanzo dello scrittore catanese Giovanni Verga, pubblicato nel 1881, come sappiamo è ambientato proprio nella provincia catanese e precisamente ad Aci Trezza. L’ambientazione del romanzo nel piccolo paesino di pescatori offre a Verga la possibilità di sviluppare a pieno i temi veristi. Il tema dell’impossibilità di riscatto sociale predomina il messaggio del romanzo e conseguentemente determina una visione negativa, o forse “realistica” della società nella Catania dell’epoca.
Altro romanzo ambientato a Catania e che è passato alla storia della letteratura italiana è “I Vicerè”, opera dello scrittore catanese Federico De Roberto. Il romanzo pubblicato nel 1894 narra le vicende della nobile famiglia catanese Uzeda di Francalanza, ma è ambientata all’epoca pre e post risorgimentale, coprendo un arco temporale che va dal 1855 al 1882. La storia della famiglia è in parte ispirata al Casato nobiliare dei Paternò e in particolare alla figura di Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano, che fu sindaco di Catania, ambasciatore e ministro degli Esteri e che nel romanzo è identificato con il giovane Consalvo Uzeda.
Diversamente ai Malavoglia, il romanzo di De Roberto dà un’immagine di Catania che non è più data da personaggi umili e del popolo, bensì da personaggi di rango nobiliare, le cui caratteristiche che spiccano sono avidità, corruzione e sete di potere. L’intento dell’autore è quello di rappresentare la disillusione nei confronti del cambiamento presente nella storia siciliana tra il Risorgimento e l’Unità d’Italia, dimostrando allo stesso tempo come i privilegiati, cioè la nobiltà, sia riuscita in ogni caso a mantenere intatti la sua fortuna e i suoi privilegi.
Tra i romanzi ambientati a Catania, non si possono non ricordare alcune tra le principali opere dello scrittore siciliano Vitaliano Brancati. Brancati, infatti, ha ambiento diversi romanzi a Catania: “Don Giovanni in Sicilia”, ambientato nel 1939 e che narra la storia di Giovanni Percolla, un quarantenne catanese che fino “ai trentasei anni non aveva baciato una signorina perbene”, perché aveva sempre avuto rapporti con donne dai facili costumi. Tematiche simili le ritroviamo nei romanzi “Il bell’Antonio” ambientato nel 1930, nella Catania fascista e che narra la storia del bel giovane Antonio Magnano, invidiato dagli uomini e ambito da tutte le donne, ma che finirà deriso per la sua impotenza. La tematica della passione sessuale e della lussuria sono riprese anche nel romanzo “Paolo il caldo”, pubblicato post mortem ed anch’esso ambientato a Catania.
Tuttavia, tra i romanzi di Brancati, ricordiamo più di tutti “Gli anni perduti”, considerato da molti come il vero inizio della sua attività letteraria. Ancora una volta l’ambientazione del romanzo è Catania, denominata Natàca, cioè con l’anagramma del nome greco Katane. La protagonista del romanzo è la noia: infatti, lo scrittore descrive la città e suoi abitanti come tutti divorati dalla noia, dal male di vivere. A rompere la noia sembra essere l’arrivo del professor Buscaino, che ha l’idea di costruire una torre panoramica. La torre panoramica descritta da Brancati nel romanzo corrisponde nella realtà alla Torre Alessi, realmente esistita a Catania fino agli anni 50.
Infine, tra le opere letterarie in qui viene descritta Catania possiamo ricordare anche un importante saggio dello scrittore tedesco Goethe, dal titolo “Viaggio in Italia”, venuto in visita nel Bel Paese e in Sicilia nel 1787. Lo scrittore tedesco visitò Catania tra il 3 e il 5 maggio di quell’anno e frequentò in quella occasione la nobiltà locale del Palazzo Biscari. Così lo descrive lo scrittore: “L’abate, che era venuto a salutarci ier sera, si è presentato stamane per tempo e ci ha condotti a palazzo Biscari, edificio ad un sol piano sopra un basamento elevato; e qui abbiam visitato il museo, che raccoglie statue di marmo e di bronzo, vasi e simili antichità d’ogni specie.”
“Dopo, il sacerdote ci ha portato nel convento dei benedettini, nella cella di un frate il cui aspetto triste e riservato, non ancora vecchio, non prometteva una conversazione allegra. È però l’unico artista che sappia suonare l’organo colossale di questa chiesa”, queste le parole usate da Goethe, e che testimoniano la sua visita al Monastero dei Benedettini.
“Siamo saliti lungo la strada dove la lava, che nel 1669 aveva distrutto gran parte della città, è ancora visibile ai giorni nostri. Il torrente di fuoco divenuto immobile è stato lavorato come qualunque altra roccia, sopra di lui sono state progettate e in parte costruite strade”, racconta Goethe in viaggio verso l’Etna.
La descrizione di Goethe si sposta infatti poi ai Monti Rossi di Nicolosi e al cratere del vulcano. “Se volete seguire il mio consiglio, andate domani ben presto a cavallo fino ai piedi del Monte Rosso. Salite su quell’altura! Avrete da lassù la vista più magnifica e potrete osservare allo stesso tempo la lava che nel 1669 si è purtroppo riversata da lì sulla città. La vista è magnifica e chiara; il resto, meglio farselo raccontare.”
“Le masse di lava in primo piano, la cima doppia del Monte Rosso a sinistra, diritto sopra a noi i boschi di Nicolosi dai quali si ergeva la cima, poco fumante. Siamo avanzati verso la montagna rossa ed io ho continuato a salire: è un accumulo fatto soltanto di frammenti, cenere e pietre rosse vulcaniche. Avrei potuto girare bene intorno alla bocca, se non ci fosse stato un violento vento mattutino che rendeva incerto ogni passo; volendo avanzare anche solo un po’ avrei dovuto togliermi il cappotto, ma poi il mio cappello è stato momentaneamente in pericolo di finire dentro il cratere e subito dopo l’avrei seguito io stesso.”
Infine, Goethe ha visitato Acicastello, attratto ancora una volta dalla pietra lavica. “Le rocce di Jaci mi attiravano moltissimo; avevo un grande desiderio di tagliarmi via dei bei zeoliti come li avevo visti da Gioeni – scrive Goethe -. Abbiamo visto i resti di serbatoi d’acqua, di una naumachia e di altre rovine simili che comunque, date le ripetute distruzioni della città per via della lava, di terremoti e di guerre, stanno sotto alle macerie e sono talmente sprofondate che soltanto un conoscitore erudito delle antichità architettoniche può provarne piacere ed insegnamento.”