La parola resilienza al giorno d’oggi è diffusissima. Il significato, derivato dalla metallurgia, è quello di resistere agli urti senza spezzarsi, assorbendone l’impatto. Traslato alla psiche umana, questo concetto indica la capacità positiva di assimilare gli eventi traumatici subiti e di oltrepassare gli ostacoli restando sensibili alle opportunità che la vita offre.
Si può parlare di resilienza dopo aver subito un grave incidente che compromette la nostra vita o quella dei nostri cari, o ancora lo si può fare a proposito della difficoltà nel tornare a sorridere dopo aver perso la persona amata; questo termine è anche al centro del laboratorio Il peso delle parole: dalla ricerca alla prassi, organizzato dalla professoressa Rossana Barcellona che, assieme ad altri docenti del Disum e agli altri enti coinvolti, ha fatto sì che lo spettacolo venisse portato a Catania.
La scelta di Jean-Paul Denizon è stata di affrontare il tema della resilienza dal punto di vista di un bambino che, dopo aver perso i genitori durante la guerra, si ritrova da solo davanti a un mondo che non riesce a capirlo. Floriné, questo il nome del ragazzo, dopo aver subito il trauma sembra incapace di ricominciare a vivere. Non riescono a svegliarlo dagli incubi del passato lo scorrere del tempo, né gli incoraggiamenti o i tentativi d’aiuto da parte dei benintenzionati che incontra lungo il suo cammino. Solo quando verrà a contatto con qualcuno come lui, che smetterà di vederlo come una vittima e instaurerà una relazione di affetto e fiducia, solo allora nel suo cuore si riaccenderà la luce.
“Penso che il messaggio da capire sia che non bisogna mai arrendersi, c’è sempre una soluzione – afferma Denizon -. Si può sempre trovare un modo per uscire fuori da qualcosa di brutto, ma appena ci si arrende è finita. Quello che cerchiamo di fare non è di parlare semplicemente di resilienza, ma di far capire che se siamo attenti, se riusciamo a dare abbastanza attenzione all’altro, possiamo aiutarlo. Ed è bello, semplicemente bello”.
Lo spettacolo Moi qui Marche mette in scena un particolare tipo di teatro, in cui marionette e attori sono compresenti sul palco, facendo nascere un amalgama in cui i corpi di carne e quelli artificiali si fondono in un armonico tutt’uno. “La scelta delle marionette – spiega il regista – è stata di Melita Poma e Arnaud Caron, ex allievi del maestro che già in passato avevano lavorato a uno show con due marionette dal titolo ‘Che cosa c’è nel baule del capitano’. In seguito, dall’incontro tra le idee di Melita e Arnaud e quelle di Jean-Paul, è nato lo spettacolo, dietro la cui realizzazione c’è un intero anno di lavoro”.
Oggi Moi qui Marche gira nei teatri da ben quattordici anni tra Francia, Italia e Germania. Uno spettacolo sempre d’attualità, arrivato anche ai piedi dell’Etna, dove nella tre giorni di repliche hanno assistito anche svariate classi provenienti da scuole medie e licei.
“È stato bellissimo, anche i ragazzi hanno ascoltato bene – rivela il regista -. Non si tratta di qualcosa di comune, a volte un pubblico di ragazzi è difficile da tenere. Qua diventa facilissimo, tutti ascoltano. L’altra sera abbiamo presentato Moi qui Marche davanti a un pubblico di adulti e bambini: silenzio totale. Seguono benissimo questa storia, dove ogni momento è scelto e nulla viene lasciato al caso; ci muoviamo sulla scena in modo da rendere conto dei movimenti dell’anima. È bello quello che c’è dentro, che si muove e dev’essere chiaro per gli altri”.
Oltre allo spettacolo, il regista ha avuto modo di condurre un breve stage di due giorni che ha visto coinvolti gli studenti del laboratorio. Durante le ore dedicate a quest’attività, si è parlato e si è agito a lungo sul concetto basilare di creare armonia tra corpo, anima e sentimento. A proposito di questa idea, Denizon spiega come sia pervenuto al suo innovativo metodo di fare teatro fondato su una serie d’esercizi miranti a raggiungere l’equilibrio auspicato.
“Ho lavorato con Peter Brook, che dice sempre ai suoi attori una frase molto importante: ‘Dovete essere sempre nel vostro corpo’, ma non spiega niente su come fare. Ho dovuto sviluppare una mia attività personale per spiegarmi cosa significasse essere nel proprio corpo, e ho capito che il senso si dà attraverso il corpo: questa è la cosa fondamentale”, conclude Denizon.