In occasione del diciottesimo compleanno della riforma che introdusse il “3+2” nelle università italiane, un bilancio delle conquiste e dei fallimenti degli ultimi anni.
Quando nel 1999 venne varata, così come richiesto dalla Comunità Europea, la riforma dell’università prevedeva un percorso di studio composto da una triennale cui aggiungere, se necessario, una laurea magistrale di due anni. Lo scopo era quello di abbreviare i tempi tra l’immatricolazione dello studente e l’effettivo conseguimento del titolo di studio, favorendo, quindi, l’introduzione nel mercato del lavoro, nonché di incentivare e incoraggiare le iscrizioni agli atenei italiani. Tuttavia, ad anni dalla sua approvazione, l’Italia continua a restare in coda rispetto a tutti gli altri Paesi dell’Unione, seguita soltanto dalla Romania.
La riforma del “3+2” sembrerebbe, dunque, non aver funzionato a dovere o, almeno, non come ci si sarebbe aspettati. Sono differenti, infatti, i punti cruciali che non soddisfano affatto gli standard europei sulle università. Primo fra tutti, la riforma non avrebbe minimamente risolto l’annosa questione della “fuga” dalle università, vale a dire il pericoloso calo delle iscrizioni da parte di nuove matricole. Al contrario, la situazione si sarebbe deteriorata ancora di più negli ultimi anni, nonostante un effimero boom riguardante l’anno 2006-2007, facendo precipitare le iscrizioni rispetto al periodo antecedente la riforma. Se nell’anno accademico 2000-2001, l’ultimo con i vecchi diplomi, le iscrizioni ammontavano a circa 284mila, lo scorso anno, segnato eppure da una lieve risalita, gli iscritti sono stati pari a più o meno 275mila.
Ma il “3+2” non è riuscito neanche a raggiungere l’effetto sperato di abbreviare i tempi di laurea. Sebbene negli anni pre-riforma soltanto il 15% degli studenti riuscisse a laurearsi in corso, mentre oggi sono quasi il 49%, i laureati italiani impiegano ancora troppo tempo rispetto ai colleghi europei. L’età media dei laureati si aggirerebbe, a detta di AlmaLaurea, intorno ai 24,9 anni per le triennali, 27,5 se si somma la biennale magistrale, e intorno ai 26,5 per le magistrali a ciclo unico. Questa tendenza comporterebbe un ulteriore ritardo nell’ingresso nel mondo del lavoro, danneggiando il mercato e il laureato stesso.
Le responsabilità, tuttavia, non andrebbero additate soltanto alla riforma universitaria, bensì, sempre secondo AlmaLaurea e il suo presidente Ivano Dionigi, la crisi economica avrebbe avuto una notevole incidenza, a causa dei numerosi tagli all’istruzione da parte dei Governi. Un ulteriore dato da non sottovalutare, afferma ancora Dionigi, “è il fatto che gli studenti che hanno già conseguito la laurea triennale preferiscano continuare a studiare, piuttosto che tentare una strada lavorativa”.
Ciò accadrebbe perché non sarebbe ancora maturata l’idea che la triennale sia una laurea a tutti gli effetti, equiparabile a qualsiasi altro titolo europeo, mentre la magistrale è un’opzione e un’occasione di specializzazione, ma non una scelta obbligata. In tal maniera sempre meno giovani sono inseriti in tempi brevi nel circuito professionale. In un tale contesto, inoltre, le aziende sarebbero ree di preferire personale, pagato con stipendi inferiori, in possesso del solo diploma, rispetto ai laureati.
Visto il fallimento della riforma del “3+2”, quindi, si sta già pensando a un nuovo disegno di legge che renda le triennali più formative e professionalizzanti, prevedendo un anno di teoria, seguito da uno di pratica e un terzo on the job, per facilitare l’inserimento nel mercato del lavoro.