“Le classifiche internazionali presentano anno dopo anno un quadro per noi sconfortante: l’Italia conquista risultati di rilievo grazie a singoli dipartimenti di grande livello e ad istituzioni quali la Scuola Normale Superiore di Pisa e la SISSA di Trieste, ma quasi nessuna delle nostre università generaliste si colloca in posizioni nel complesso accettabili”.
Ciò è quanto si legge, nero su bianco, in un documento pubblicato sul sito ufficiale del Ministero dell’Istruzione e basta già a delucidare sulle condizioni in cui versa il sistema universitario italiano. Infatti nella classifica mondiale delle migliori università, stilata come ogni anno dal Times, bisogna scorrere fino al numero 226 per leggere il nome di un ateneo italiano, quello di Bologna; mentre invece ci troviamo facilmente sul podio quando si parla di tassa elevate, per cui l’Italia si colloca al terzo posto in Europa. Pochi elementi questi, sufficienti però a comprendere che l’Università in Italia è ben diversa da quelle degli altri Paesi europei. Perché?
Le motivazioni sono molteplici e investono purtroppo diversi campi. Secondo la Commissione Europea una delle cause dell’arretratezza del sistema universitario italiano risiede nell’eccesso di regolamentazione, di burocrazia e ciò rappresenta senza dubbio un ostacolo alla modernizzazione. È infatti una ricerca condotta da Eurostat a confermare che l’Italia si trova all’ultimo posto in Europa per numero di laureati: solo il 20,3% contro la ben più alta media europea del 34, 6%; e in particolare i dati indicano che anche in confronto a Paesi come Germania (30,7%), Spagna (40,6%) e Francia (43,3%), l’Italia si ritrova molto indietro.
Decisamente alta inoltre la percentuale di abbandono del percorso di studi: dai dati disponibili nel rapporto OECD Education at a Glance in Italia soltanto il 32,8% degli studenti porta a termine un corso di laurea a fronte di una media europea pari al 38%. E in marcata diminuzione anche le immatricolazioni.
A delineare questo quadro avvilente sicuramente vi sono le infime prospettive economiche e di realizzazione personale e professionale dei laureati. Per l’Udu influiscono certamente anche i tagli realizzati negli ultimi anni ai fondi per il diritto allo studio, che sono scesi a soli 12 milioni di euro rispetto ai 2 miliardi assegnati da Francia e Germania.
Secondo l’undicesimo rapporto del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario con riferimento alla quota percentuale di spesa pubblica destinata all’istruzione universitaria, i valori percentuali più elevati si registrano per la Norvegia (5,3%), la Nuova Zelanda (5,2%), il Canada (4,5%) e la Danimarca (4,5%). Nelle ultime posizioni, subito prima dell’Italia, si collocano il Giappone (1,7%) ed il Regno Unito (2,0%). Tutto questo comporta che sempre più studenti meritevoli di borsa (circa 45.000) sono rimasti senza e hanno enormi difficoltà a continuare gli studi. Dunque l’università diventa sempre di più un privilegio che non tutti si possono permettere, questo rispetto ad un’Europa che invece praticamente non fa pagare le tasse universitarie, perché completamente gratuite in Paesi come Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia e Austria.
In conclusione, se da un lato troviamo il sistema universitario europeo che combatte, che agevola nell’istruzione, che investe nella formazione del proprio capitale umano, dall’altro assistiamo a quello italiano della resistenza.