Indice
Tabù, credenze errate, cliché, luoghi comuni e convenzioni su tematiche come: il genere, la religione, l’orientamento sessuale, l’aspetto fisico. Sono tutti argomenti che il politically correct mira a superare. Si tratta di un fenomeno entrato in punta di piedi a far parte delle nostre vite, diventando oggi protagonista indiscusso di dibattiti e discussioni.
Con l’espressione politically correct si fa riferimento a un orientamento di natura il più inclusiva possibile, che pone le fondamenta per la creazione di una società equa e onesta. Si fa riferimento quindi a una propensione, a un atteggiamento e un modo di esprimersi più corretto e inclusivo nei confronti di quelle categorie storicamente più deboli e discriminate. Ne ha parlato con LiveUnict il professore Massimo Vittorio, docente di Etica della comunicazione e Antropologia Filosofica al Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania.
Storia del politically correct: un ideale culturale progressista
Il politicamente corretto nasce in un periodo ben preciso e in un contesto ben definito. Il fenomeno muove i primi passi durante gli anni ’60 del secolo scorso ma si affermerà in maniera totalizzante solo negli anni ’80 in un contesto accademico abbastanza innovativo e inclusivo: quello statunitense.
Gli atenei americani, infatti, spiega il professore Vittorio, consentivano l’accesso ai corsi di laurea a un numero sempre maggiore di studenti provenienti da altri Paesi o appartenenti a minoranze. Con l’ampliamento dell’organico studentesco, anche la parte democratica statunitense rappresentata dalla vita accademica nei campus americani si trovava a commentare la politica americana del presidente degli Stati Uniti d’allora, Ronald Reagan, presentando dei contenuti “alternativi” definiti politicamente corretti rispetto a semplificazioni e posizionamenti che potevano apparire estremisti.
Alla stessa maniera, i conservatori utilizzavano il medesimo termine in maniera sarcastica, offensiva, dispregiativa, al fine di denigrare le proposte alternative e controcorrenti dei democratici.
All’inizio, questo fenomeno del tutto inedito ebbe delle conseguenze disastrose: si verificarono numerosi episodi razzisti, che sconvolsero il mondo delle università. Per frenare l’ondata di reazioni xenofobe, i rettori e i professori degli atenei introdussero i cosiddetti speech codes, codici linguistici privi di qualunque valenza offensiva e denigratoria.
L’evoluzione del politically correct
Secondo quanto sostiene il docente, nonostante la sua natura puramente inclusiva, oggi il fenomeno progressista ha assunto un’accezione più estesa; siamo, infatti, i protagonisti di un utilizzo estensivo e pervasivo del politicamente corretto che ha portato ad una certa inflazione del suo potere critico e inclusivo.
Tuttavia, le motivazioni legate all’uso esteso del politicamente corretto non dipendono da una scelta politica. Al contrario, sono da ricercare nei postulati della società in cui oggi viviamo. Una società che tende alla totale omologazione, un fenomeno da intendersi come una grande semplificazione delle prospettive sociali e culturali. Questa omologazione sociale è una “onda lunga”, che precede la nascita del politicamente corretto ma a cui, oggi, è strettamente legata.
“L’omologazione della società contemporanea – dichiara il professore Vittorio – inizia nell’800 ed è legata al grande sviluppo della tecnica – ed in ciò è diversa da quella pur presente nei secoli precedenti. La società di oggi è iper-tecnica e bada soltanto al funzionamento. Nella società tecnica quello che conta sono: produzione e consumo.
Questi meccanismi – prosegue – hanno come criterio solo il funzionamento di una società dominata dall’ossessione di efficienza, ottimizzazione, velocità, standardizzazione e omologazione. Meccanismi che poi finiscono per descrivere la vita delle persone nella società attuale. Inconsciamente, abbiamo assimilato le procedure industriali e tecniche come modus operandi per tutte le relazioni che abbiamo; ragioniamo in termini di efficienza e velocità”.
Tutto ciò spiegherebbe la pervasività del politicamente corretto, il cui principale effetto è la sua stessa inflazione. A causa dell’utilizzo estensivo a cui oggi si presta in modo involontario, il politicamente corretto rischia di diventare esso stesso una semplificazione; rischia dunque di essere inflazionato e di perdere quel suo calibro genuino e valido, rischiando, allo stesso tempo, di aumentare gli equivoci attorno alla sua stessa portata.
“Nella società tecnica qualsiasi cosa si presti a una semplificazione – continua ancora il docente – funziona benissimo. Il linguaggio deve essere a servizio di una possibile semplificazione. Il linguaggio, che dovrebbe essere uno strumento di inclusione, finisce, spesso, per essere una scorciatoia e non l’invito a una comprensione, a una riflessione. Dobbiamo comprendere il dovere di essere inclusivi, anche attraverso l’etimologia di una parola, e non solo imparare meccanicamente quali parole si possono usare e quali no.
Nel momento in cui utilizziamo una parola senza sapere il perché – aggiunge -, noi non conosciamo il mondo. Dobbiamo scoprire il perché delle cose. Se il linguaggio modificato dal politicamente corretto aggiunge nuovi termini, dall’altro, tutto questo, nel caso in cui non se ne abbia la consapevolezza, rischia di essere una scorciatoia un po’ superficiale e vuota che anziché invitare all’approfondimento lo taglia fuori, lo esclude, lo semplifica, lo annulla attraverso parole che fungono solo da etichette”.
Come afferma il professore ai microfoni di LiveUnict, bisogna essere eticamente inclusivi: bisogna cioè andare oltre a delle mere etichette, dobbiamo imparare ad accettare la diversità altrui e riconoscerla come un valore.
“L’inclusione – continua -, che dal punto di vista etico è il riconoscimento dell’alterità, il riconoscimento del fatto che esistono altri, che l’esistenza è una rete di coesistenze, impone una profonda consapevolezza ovvero la comprensione dell’altro non in quanto uguale ma in quanto diverso”.
Secondo il docente, il problema della semplificazione a cui purtroppo, per via delle strumentalizzazioni, si presterebbe il politicamente corretto, non facilita in alcun modo questa comprensione. Bisognerebbe quindi unire alle revisioni linguistiche la comprensione della reale motivazione per farlo.
“Dunque, ciò che è richiesto è l’eticamente corretto – spiega il professore Vittorio – ovvero, l’esigenza di misurarsi con la diversità affinché prestiamo davvero attenzione all’altro. Un ragionamento, però, che viene messo in crisi e ribaltato dal sistema tecnico che, al contrario, impone omologazioni e semplificazioni. Il politicamente corretto, quando viola la sua stessa origine, diventa lo strumento perfetto nelle mani della società tecnica e del processo di omologazione perché favorisce le polarizzazioni”.
Ma cosa si intende, quindi, con polarizzazioni? Secondo il docente, se vogliamo essere davvero inclusivi, eticamente corretti e non solo politicamente corretti, dobbiamo avere bisogno di complicazioni e non semplificazioni. La complicazione richiede contestualizzazione ma noi non conosciamo più i contesti perché non è necessario perché la società tecnica ha cambiato la società di oggi.
“La società digitale è il corollario di quella tecnica e impone la semplificazione. L’esempio massimo di semplificazione sono i social network, dove non è richiesto l’approfondimento per poter condividere o commentare. Pertanto la fruizione rapida impone reazioni superficiali e altrettanto rapide. Le piattaforme social sono il regno delle polarizzazioni – afferma il prof. Vittorio -, basta guardare ciò che accade sotto un post: vediamo subito chi è pro e contro, spesso attraverso l’uso di un linguaggio offensivo, esclusivo, denigratorio. Si prende una posizione, ci si schiera perché se ci si schiera si entra nel processo di costruzione della propria identità, con prese di posizioni drastiche, semplificate.
Il politicamente corretto nelle mani della società tecnica finisce per agevolare questo tipo di posizionamento. Non importa quale posizione io abbia – prosegue -, è importante solo che ci sia uno schieramento. Non c’è spazio per le alternative, non c’è spazio per l’approfondimento. La polarizzazione si basa sul linguaggio binario, tipico della comunicazione digitale; siamo passati dal complesso al compresso, dalle analogie (su cui si basa l’analogico) ai bit. Stiamo assistendo a una deriva del politicamente corretto, a un tradimento dello stesso perché in principio nasceva proprio per rompere gli schemi della semplificazione. L’invito è quello di tornare al politicamente corretto iniziale”.
Oltre la forma: l’importanza dell’eticamente corretto
Quando si parla di inclusività si tende a parlare di linguaggio corretto, si punta a delle revisioni linguistiche, alla creazione di nuovi termini perfettamente in linea con la tendenza ideologica del politically correct. Oltre al linguaggio, tuttavia, è necessario voler essere davvero inclusivi. Per farlo, la tesi del docente è che si passi dal politicamente corretto all’eticamente corretto, un passaggio più che necessario poiché a essere necessaria, al fine di un’inclusione sociale, è l’etica. Bisogna, dunque, che vi siano dei valori e per far sì che questo accada è importante che avvenga una educazione: bisogna educare le nuove generazioni alle relazioni con gli altri, a far comprendere la complessità.
“È fondamentale essere educati alla complessità – conclude il professore Vittorio -: dobbiamo ricercare l’eticamente corretto nonché la trascendenza del sé, essere educati a riconoscere l’altro come altro diverso da me e intendere la diversità come valore. Il politically correct utilizzato come strumento nelle mani di una società tecnica non aiuta a comprendere le cose ma solo a etichettarle.
Abituati all’omologazione non siamo più abituati al discernimento – prosegue -: comprensione dell’altro. Non bisogna usare delle etichette o slogan, bisogna allenarsi a comprendere l’altro. Perché passare all’eticamente corretto? Perché l’etica della comunicazione svolge un ruolo importante in questo processo, poiché invita a considerare la comunicazione in modo autentico. L’etica della comunicazione ci ricorda l’importanza del dialogo, attraverso il principio della reciprocità. Il dialogo richiede una capacità di ascolto, di ascolto dell’altro, di stare in silenzio, perché il silenzio è una forma di comunicazione. L’etica della comunicazione è una forma educativa verso una prospettiva non funzionale, va contro la semplificazione del linguaggio tecno-digitale, perché invita a un linguaggio complesso e non compresso in bit e slogan”, afferma infine il docente.