Negli ultimi mesi l’Italia si sta preparando ad accogliere la legge contro l’omotransfobia e la misoginia. Più volte il DDL è stato presentato come una legge che riguarda tutti, non solo la comunità LGBTQ, ma soprattutto le donne. Nonostante le forze politiche di opposizione non siano d’accordo all’unanimità, lo scorso 4 novembre la Legge Zan è passata alla Camera. Ultimo step è il Senato.
Negli ultimi giorni a Catania è nata una grande polemica sulla proposta di intitolare una via a Don Benzi nella Zona Industriale. L’iniziativa rientra nelle attività della Commissione Toponomastica, guidata dall’assessore Alessandro Lo Porto. Don Oreste Benzi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, è noto anche per le sue dichiarazioni omofobe. Il parroco, infatti, più volte ha paragonato l’omosessualità a una devianza mentale. A tal proposito il comitato di Arcigay Catania si sta battendo contro lo stesso Lo Porto.
Alla luce dei recenti fatti, le discriminazioni sessuali e di genere non cessano di esistere. Alessandro, transgender FtM di 49 anni, ha deciso di rompere il silenzio e raccontare la sua storia, affinché possa essere d’esempio e d’aiuto, per chi come lui ha subito ogni tipo di discriminazione. “Ho subito 20 anni di insulti – ci racconta –, su più fronti: famiglia, lavoro e comunità. Dopo una lunga riflessione ho deciso di parlarne pubblicamene senza alcuna vergogna”.
Vent’anni fa decide di cominciare il suo percorso verso la transizione. Sostiene di averlo sempre saputo dentro di sé. “Ognuno di noi prende consapevolezza di quello che si è fin da bambino – afferma Alessandro, ripercorrendo alcuni tratti della sua infanzia –, e a me è successo all’età di tre anni. Stavo passeggiando con mio nonno e mentre lui si riferiva a me con gli appellativi femminili mi arrabbiavo. Così gli dissi: ‘Nonno, ma io non sono una femmina’, e lui mi rispose in dialetto: ‘Basta ca si cuntentu’”. La presa di coscienza è arrivata a soli 30 anni. “Vuoi perché per accettarti devi fare un percorso di vita – continua –, delle esperienze e delle scelte, talvolta anche negative o non volute, che servono per darti le necessarie conferme”.
Nel suo percorso FtM, Alessandro ha dovuto affrontare anche le cosiddette “terapie di conversione” o “riparative”. “Oggi è un fenomeno meno diffuso – prosegue Alessandro – ma vent’anni fa anche la psicologia, fagocitata dalla morale della Chiesa, non forniva i giusti strumenti a chi si avviava a una strada del genere. Siamo dei soggetti deboli, non perché non siamo sicuri di ciò che siamo, ma perché la realtà che ci circonda ci fa paura. Pensiamo inevitabilmente: ‘E se poi mi prendono in giro? E se non riesco a trovare un lavoro?’ “.
Quasi in concomitanza del transito, nella vita di Alessandro arriva l’amore, seppur la relazione non sia finita bene. Alessandro porta con sé brutte ferite che si sono create attorno a quel rapporto e ce ne parla così: “Ho conosciuto una donna, con cui ho intrapreso una relazione, nonostante vivesse con il marito e sua figlia. Il marito, che già da prima manifestava la sua natura violenta, non voleva accettare la fine del loro rapporto. Così ha cominciato a picchiarla, perseguitarla, fino ad usare violenza sessuale sul suo corpo. La mia fidanzata soffriva già di schizofrenia e bipolarismo e molto spesso non era lucida quando subiva le violenze del marito. Un giorno abbiamo deciso di fare i bagagli assieme alla figlia e siamo andati a Roma”.
Ma la fuga non ha portato alla luce alcun segno di riscatto. Alessandro e la sua compagna decidono di rivolgersi ad un’associazione per denunciare le minacce del marito, ma invece di aspettarsi ospitalità e accoglienza, si è trovato di fronte un muro più grande di lui da dover abbattere. “Dopo aver raccontato tutto – dice -, lì gli assistenti sociali hanno dato ragione al marito, perché ai loro occhi ero un soggetto destabilizzante per lei, vista la mia condizione”.
Dopo Roma, Alessandro è tornato a Catania e assieme alla sua fidanzata si sono avvicinati alla comunità buddista della Soka Gakkai. Lì inizia il secondo incubo per la coppia, che li porterà alla chiusura della loro storia. “Ci eravamo avvicinati perché avevamo molte cose in comune – racconta Alessandro -, ma quella che doveva essere una comunità, alla fine, si è rivelata una setta in cui facevano il lavaggio del cervello. Alla mia ragazza dicevano che io non ero un vero uomo e che lei doveva lasciarmi. Questa è la rivelazione che in Italia esiste ancora la fallocrazia: ha più importanza sapere cosa si ha sotto una gonna o dei pantaloni”.
Ma le violenze subite non finiscono qui. Ad aggravare la situazione vi è anche la famiglia, in particolar modo i rispettivi compagni delle sorelle. “Per un periodo mi hanno costretto a stare all’interno di un monovano a Vompileri – prosegue Alessandro – da solo, perché dovevo curarmi, perché essere transgender è vista come una malattia. Poi hanno raggirato mia madre, un’ottantenne gravemente malata non in grado di intendere e di volere, vendendo la sua casa e non ho mai ricevuto la mia parte di denaro. Hanno deciso di escludermi dalla famiglia”.
Alessandro solo ora ha deciso di denunciare vent’anni di torture, anche in vista della Legge Zan. “Sono felice che finalmente potrà esserci una legge che mi tuteli – commenta Alessandro – affinché nessun altro possa subire ciò che mi è stato fatto. Non ho fatto nulla se non essere me stesso e smettere di vivere nell’ipocrisia, sto bene così. Adesso voglio vincere, in primis per me stesso e per chi mi è stato sempre accanto, ma anche per tutte le persone che ancora oggi subiscono in silenzio o che non vengono tutelate da nessuno”.