L’Università di Catania, come la maggior parte degli atenei italiani, ha negli anni ampliato la propria offerta formativa includendo alcuni corsi di laurea magistrale, master e dottorati interamente in lingua inglese. Complessivamente, esistono 4 corsi di laurea magistrale (Chemical Engeenering for Industrial Sustainability, Automation Engeenering and Control of Complex Systems, Electrical Engeenering e Global Politics and Euro-mediterranean Relations) un master in Sustainable Intensification of Agricultural Systems e un dottorato in Agricolture, Food and Environmental Science.
Esistono, inoltre, anche tanti corsi misti, che hanno cioè alcune materie insegnate in lingua italiana e altre in lingua inglese, presso i dipartimenti di Scienze Umanistiche, di Scienze Politiche e Sociali e di Economia e Impresa.
Tuttavia, la decisione intrapresa dal Politecnico di Milano, che ha scelto di tenere tutti i corsi di laurea magistrale dell’offerta formativa in lingua inglese, e gli eventi giudiziari che ne sono conseguiti, hanno suscitato una grande polemica, a livello nazionale, tra chi sostiene i corsi in lingua inglese e chi li considera una minaccia per la lingua italiana.
Qual è allora il vero valore dei corsi di laurea in inglese? Lo abbiamo chiesto ad alcuni docenti del nostro Ateneo.
Il professore Giuseppe Vecchio, direttore del dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, docente ordinario di Diritto Privato, ha inizialmente offerto un quadro generale della questione dal punto di vista giuridico, spiegando che: “Quando il Politecnico di Milano ha scelto di fare tutti i corsi in lingua inglese, c’è stata un’impugnativa da parte di alcuni docenti del Politecnico al Tar, il quale ha sollevato una questione di legittimità costituzionale. La Corte costituzionale ha affermato tramite la sentenza n.42 del 201 che la legge Gelmini si può ritenere costituzionale solo se non consente che tutti i corsi di laurea siano insegnati in lingua straniera. Seguita la causa, il Consiglio di Stato con la sentenza della Sezione Sesta, 29 gennaio 2018, n. 617 ha dato ancora una volta torto al Politecnico di Milano.”
“A quel punto – prosegue il docente – si è inserita anche l’Accademia della Crusca, anch’essa in contrasto con il Politecnico, per farne un percorso di salvaguardia della lingua italiana: perché non è possibile in Italia insegnare esclusivamente in lingua straniera.”
A sostenere la recente battaglia dell’Accademia della Crusca, è anche il professore Rosario Faraci, Presidente del Corso di laurea in Economia Aziendale. “L’Accademia della Crusca sta facendo un ottimo lavoro a difesa della lingua italiana” – spiega Faraci – Recentemente è intervenuta anche su un documento da poco emanato dal MIUR, il cosiddetto Sillabo dell’Imprenditorialità per la diffusione della cultura d’impresa nelle scuole, che è pieno zeppo di inglesismi e di termini tecnici in Lingua Inglese, alcuni usati a sproposito. Non mi sorprende che sia intervenuta pure nel merito delle scelte di offerta formativa operate dal Politecnico di Milano. Però da qui a dire che l’inglese possa essere una minaccia mi sembra un po’ esagerato.”
Entrando nel merito della questione dei corsi in lingua inglese presenti nel nostro Ateneo, la professoressa Daniela Melfa, docente di Storia del Nord Africa e del Medio Oriente del corso GLOPEM, ha dichiarato ai microfoni di LiveUnict: “Se venisse sostituita per intero l’offerta didattica dalla lingua inglese io credo che il problema si porrebbe, qui il nostro caso è certamente diverso da quello del Politecnico. Io non mi arroccherei per principio in una difesa dell’italiano o dell’italianità.”
“Credo che – prosegue la docente – gli studenti debbano confrontarsi con un mercato del lavoro che è internazionale, allo stesso tempo anche i docenti devono confrontarsi ed interloquire con una comunità scientifica che è internazionale. Ciò non significa sminuire l’italiano, ma credo che tutti noi dobbiamo confrontarci con questa sfida di trovare una lingua veicolare in un mondo che è sempre più globale.”
Il nostro Ateneo investe sempre in una maggiore internazionalizzazione, così come in numerosi programmi di mobilità internazionale. Allora perché si talvolta si osteggia la diffusione dell’inglese in ambito universitario e accademico?
“Esiste una grande apertura nei confronti della lingua inglese, che però io proverei a iscrivere in un quadro più coerente in cui vengono sostenuti i corsi internazionalizzati, in cui non si stravolge l’offerta formativa, mantenendo in italiano determinati corsi di specialistica”, afferma Daniela Melfa, presidente della Società per gli studi sul Medio Oriente.
La docente, che ha imparato l’inglese e il francese, vive in prima persona l’esperienza di insegnare in classi miste, con studenti di diverse nazionalità anche molto lontane dalla nostra, potendo apprezzare contributo e l’arricchimento offerto dal dialogo con diverse culture e nazionalità dal punto di vista didattico, reso possibile grazie alla lingua inglese. “I corsi di laurea in lingua inglese – prosegue la docente – sono certamente una fatica: non diamo per scontato che noi docenti parliamo benissimo la lingua inglese. Rappresentano però una grande risorsa sia per noi docenti e sia per gli studenti, e credo anche per l’Ateneo.”
Della stessa opinione è il professore Faraci, che attualmente insegna Innovation and Business Models, ed ha insegnato per oltre 10 anni alla University of Florid : “Non sono contrario, per partito preso, a corsi di laurea magistrale o di master in Inglese. Se il progetto formativo è serio, non ci vedo nulla di male. A chi frequenta tali corsi è data una chance in più anche sul versante delle prospettive occupazionali post-lauream. Perché rinunciare a priori a questa possibilità?”
Diversa è la posizione del professore Vecchio, il quale ritiene necessario un intervento normativo da parte del legislatore per regolare una volta per tutte questa materia. “La cosa più saggia – afferma il docente – è che gli insegnamenti vengano fatti in maniera bilingue, perché solo questo salva il principio costituzionale di salvaguardia della lingua italiana nell’ambito di attività formative ed in secondo luogo garantisce la possibilità dell’internazionalizzazione.”
Attualmente tuttavia, il professore non mette affatto in discussione la posizione che è stata approvata dal Ministero, ma ribadisce: “È necessario che si conosca la lingua italiana. I Decreti ministeriali 209 e 270, quelli che reggono tutta l’offerta formativa rivelano che necessariamente in tutti i corsi si debba conoscere una lingua europea oltre la lingua italiana. Ed in effetti, in tutti i corsi è impartita una formazione linguistica europea oltre l’italiano. Il rischio e la mia preoccupazione è che con la diffusione di corsi in lingua inglese possiamo produrre dei laureati che conoscono male la lingua italiana.”
“Imparare l’inglese è uno strumento in più per affrontare il mondo”, ha più volte ripetuto la proferssoressa Melfa. L’inglese non è soltanto una materia che per legge deve essere impartita a tutti i gradi della formazione, e non è nemmeno semplicemente la lingua più parlata al mondo. Oltre ad essere divenuta una conoscenza fondamentale per tutti gli ambiti lavorativi e professionali, è soprattutto lo strumento che ci permette di allargare i nostri orizzonti, di aprirci al mondo e mescolarci a realtà diverse dalle nostre.
“L’Università è per definizione inclusiva e deve far crescere tutti gli studenti, tenendo conto delle loro differenti velocità di apprendimento – conclude il professore Faraci – È finito il tempo di un’Università a misura dei docenti, lasciando poi che gli studenti trovassero da soli le più opportune modalità di apprendimento dei contenuti disciplinari dell’insegnamento. L’Università è una casa comune di conoscenze, abilità e competenze e in questa casa lo studente deve muoversi come meglio ritiene, anche in funzione delle sue attitudini.”