La conquista alleata della Sicilia nel 1943 gettò l’isola nel caos. La regione, già martoriata negli ultimi anni del fascismo, uscì stremata dall’invasione alleata. Le ferrovie erano state distrutte dalle bombe, le strade danneggiate dai carri armati e la popolazione affamata e disorientata. In questo contesto, la criminalità fiorì nuovamente. Il mercato nero era diventato la principale fonte di approvvigionamento per la popolazione e i delitti e le rapine erano all’ordine del giorno.
Gli alleati istituirono l’AMGOT: un ente incaricato di governare i territori occupati. Dai documenti ufficiali prodotti durante i 6 mesi di vita dell’AMGOT, è evidente che i pochi mafiosi rimasti stessero rapidamente recuperando tutto il terreno perso durante il fascismo. Grazie al mercato nero e alla debolezza del potere pubblico, i mafiosi riuscirono ad infiltrarsi nei municipi e nei comuni, ricostruendo un deciso controllo del territorio.
Con il ritorno delle istituzioni italiana nel 1944 e lo scioglimento dell’AMGOT, la mafia si buttò nella nuova politica democratica con una particolare attenzione verso un determinato partito, a vocazione cattolica, di recente formazione: la Democrazia Cristiana. Il partito portava avanti la difesa della famiglia, della proprietà privata e della libertà sociale e, in origine, non aveva nulla a che vedere con la mafia. Tuttavia, fu il suo approccio clientelare basato sui favori a creare un connubio con la mafia molto conveniente.
La distruzione degli agrumeti: il sacco di Palermo
Tra una matassa di tangenti, la politica clientelare esacerbò le risorse destinate all’Isola creando scandali e disastri che ancora segnano il territorio siciliano.
Salvatore Lima e Vito Ciancimino, eletti al consiglio comunale di Palermo nel 1956, furono i principali artefici della più devastante di queste: il Sacco di Palermo. Durante il periodo del loro mandato, la carica di assessore ai lavori pubblici divenne una delle più importanti. Insieme, Lima e Ciancimino permisero l’emissione di oltre 4000 licenze di costruzione edilizia trasfigurando per sempre Palermo. Le licenze, concesse grazie a piani regolatori antiquati e controlli inesistenti, permisero alla mafia di incassare enormi ricchezza grazie alle infiltrazione nel mercato del cemento.
Strutturare il controllo: la Commissione
Fino al periodo del sacco di Palermo, Cosa nostra aveva seguito un’organizzazione di tipo familiare. Una famiglia (o cosca) era un’istituzione fortemente gerarchizzata che vedeva:
- Il capofamiglia (boss) al vertice. Decide a chi affidare gli incarichi, dirige le attività della famiglia e la rappresenta alle altre famiglie mafiose
- Il consigliere: braccio destro del boss, lo aiuta consigliandolo sulle attività della famiglia;
- Il capodecina: nominato dal capo famiglia, coordina un gruppo di soldati (in genere 10). Agisce come una sorta di ufficiale che organizza le operazioni e esegue gli ordini;
- Il soldato o «uomo d’onore»: rappresentano la base della famiglia. Eleggono il capofamiglia e portano a termine tutte le attività della famiglia in base agli ordini che gli sono impartiti.
Il punto di svolta avvenne nel 1957, quando arrivò dall’America Joe Bananas (Giuseppe Bonanno), un rappresentante di spicco della famiglia Bonanno, una delle 5 grandi famiglie newyorkesi. Bonanno suggerì a Cosa nostra di adottare un’organizzazione per Commissioni (provinciali e interprovinciali) seguendo il modello americano. Si trattava di un’assemblea tra le famiglie di ogni provincia che aveva come obiettivo quello di coordinare l’attività delle cosche per evitare scontri.
La necessità di un coordinamento tra le famiglie era stata corroborata dall’ingresso della mafia nel nuovo mercato della droga, pericoloso traffico intercontinentale che coinvolgeva un elevato numero di persone e non poteva essere appannaggio esclusivo di pochi. Tuttavia la “prima Commissione“, istituita nel 1957, ebbe scarsi risultati: la riluttanza a collaborare e la natura infida dei mafiosi non fece durare la pace a lungo.
La strage: la prima guerra di mafia
Fu proprio il nuovo business della droga a causare la prima sanguinosa Guerra di mafia. Il conflitto coinvolse due famiglie, i Greco e i La Barbera. La posta in palio era alta: il controllo del traffico dell’eroina in Sicilia. Il conflitto palesò come la mafia fosse capace di autodistruggersi. Dopo un anno di sanguinose uccisioni (la mattanza di Palermo) un episodio mise fine al conflitto: la strage di Ciaculli nel 1963. In quell’occasione persero la vita 7 militari delle forze dell’ordine nel tentativo di disinnescare un’autobomba messa a punto dai Greco per attaccare i La Barbera. L’evento provocò una durissima reazione dello Stato italiano che arrestò circa 2000 persone attuando rastrellamenti paragonabili a quelli del prefetto Mori.
La “nuova” mafia e la prima “Antimafia”
La prima guerra di mafia suscitò la reazione decisa dello Stato italiano: nacque nel 1962 il primo corpo Antimafia. Dopo la sua istituzione, avvenne la tragica strage di Ciaculli e l’intera nazione rivolse lo sguardo alla mafia. Il grande interesse iniziale, tuttavia, calò rapidamente a seguito della strategia applicata dalla mafia per difendersi dalla repressione statale: sparire. L’attività criminale si ridusse enormemente in modo tale da non poter dare adito ai venti di cambiamento che andavano contro la mafia. Non vi furono grandi processi: la prima guerra di mafia e i suoi responsabili rimasero impuniti. Una volta calmate le acque, nuovi attori mafiosi si mossero per portare la malavita a nuova vita.
Il ritorno della guerra: l’ascesa dei Corleonesi
Il mercato dell’eroina rendeva più di ogni altro. Il crollo della mafia americana permise a Cosa nostra di ascendere a organizzazione di primo piano per il traffico della droga. Tanti soldi significavano anche tante teste interessate a guadagnarli. È così che ebbe iniziò la seconda guerra di mafia.
Nel 1970 scomparve il cronista investigativo del giornale “l’Ora” Mauro De Mauro. Nel 1971, la mafia uccise Pietro Scaglione, procuratore della Repubblica, e nel 1977 assassinò Giuseppe Russo, tenente dei Carabinieri. Riina, capo della famiglia dei Corleonesi, nel tentativo di consolidare il suo potere, avviò uno spietato attacco a cosche rivali e allo Stato italiano. Tra il 1979 e il 1984, la mafia uccise oltre 500 persone tra uomini delle istituzioni, giornalisti e mafiosi rivali. Uomini illustri come il deputato Pio la Torre, il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e il giudice Rocco Chinnici persero la vita.
Una reazione decisa: i mezzi contro la mafia
Per far fronte all’escalation, nel novembre del 1983 il Consiglio Superiore della Magistratura costituì il Pool Antimafia, un insieme di giudici dedicato alla lotta contro il fenomeno mafioso. A farvi parte: Angelo Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Leo.
Grazie alle numerose prove accumulate, il 29 settembre 1984 partì l’operazione che sarebbe poi stata ricordata come “La notte di San Michele“: un enorme blitz della polizia che portò all’arresto di 366 persone. A seguito dell’operazione, il giudice Caponnetto dichiarò sorridente: “Non ci troviamo più di fronte a diversi processi di mafia. Questo è un processo alla mafia. […] Siamo riusciti finalmente a penetrare nel cuore dell’organizzazione mafiosa“.
La violenza della seconda guerra di mafia aveva portato lo Stato italiano a dotarsi dei giusti mezzi per fare fronte al problema. La vera battaglia contro la criminalità organizzata iniziò proprio con il Pool antimafia e, purtroppo, ancora non è stata vinta.