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Il Regno Unito è soltanto l’ultimo ad esser stato attratto dall’idea di una settimana lavorativa di soli 4 giorni. Negli anni, una riduzione dell’orario senza modifiche per la retribuzione è stata sperimentata anche altrove. Con quali risultati?
Il progetto nel Regno Unito
“Four-day week campaign: MP submits bill to Parliament“: con questo titolo la BBC ha recentemente annunciato un’idea volta a modificare il concetto di “lavoro”, almeno nel Regno Unito.
Peter Dowd, parlamentare laburista, ha presentato un disegno di legge volto a modificare a livello nazionale l’orario lavorativo: se dovesse trasformarsi in realtà concreta, i cittadini sarebbero tenuti a lavorare al massimo per 32 ore alla settimana. E considerare la soglia attuale, di 48 ore, significa ammettere che si tratta di una notevole differenza.
In particolare Dowd punterebbe a riservare a chiunque goda di un impiego una settimana lavorativa da quattro giorni, cioè a rendere sistematico ciò che, in realtà, è da tempo sperimentato. In effetti si è da poco conclusa la prima parte di un esperimento lanciato nel Regno Unito dall’Associazione “4 Day Week” e che ruota proprio intorno alla settimana lavorativa “corta”.
Da giugno ben 3.300 lavoratori appartenenti a 73 aziende di vario genere hanno coperto turni per soli quattro giorni alla settimana: per loro è mutato il tempo trascorso sul luogo di lavoro, ridotto del 20% rispetto al consueto, ma non lo stipendio.
Per scoprire qualcosa in più sul destino del disegno di legge presentato da Peter Dowd bisognerà attendere almeno fino al prossimo 18 ottobre, giorno in cui il Parlamento di Westminster inizierà a discuterne. La decisione è ancora in dubbio, a differenza del giudizio di chi ha sperimentato questo nuovo modello di lavoro.
Settimana corta in UK: i giudizi
Il programma coinvolge anche ricercatori dell’Università di Cambridge, dell’Università di Oxford e del Boston College, incaricati di verificare se, ed eventualmente in che misura e modo, la settimana lavorativa da quattro giorni influisca sui livelli di produttività. Ma vanno valutate anche le conseguenze sulla vita ed il benessere dei lavoratori coinvolti.
Già ad agosto, secondo quanto riportato dalla Cnn, amministratori delegati non avevano fatto mistero delle difficoltà riscontrate soprattutto all’inizio, ma diversi altri lavoratori avevano anche espresso pareri positivi, dichiarando di sentirsi più felici, più sani e maggiormente produttivi grazie alla settimana corta.
Negli scorsi giorni la Bbc ha fornito aggiornamenti sull’impatto del test. Finora 41 aziende sulle 73 totali si sarebbero espresse a riguardo: di queste, il ben 86% ha riservato all’esperienza una valutazione positiva e ai propri dipendenti la promessa di rendere permanente la settimana corta, una volta ultimato l’esperimento.
Inoltre quasi tutte le aziende portatrici di un responso favorevole (il 95%) non avrebbero registrato cali della produttività interna.
Successo in Islanda
Una volta concluso il progetto, ciascuna delle aziende britanniche coinvolte potrà decidere se continuare ad adottare la “settimana corta” o accantonarla. Ma occorre guardare a tale iniziativa come a un caso isolato? In realtà il Regno Unito in tal senso è stato anticipato da altri Paesi: va citato per esempio il caso dell’Islanda.
Basti pensare che, tra il 2015 e il 2019, anche in quest’Isola 2.500 dipendenti del settore pubblico avevano svolto servizio per un minor numero di ore settimanali (da 40 a 35/36 ore) senza per questo notare una modifica in negativo dei propri salari. Al massimo altre in positivo.
Di fatto, secondo i risultati resi noti a luglio 2021 e analizzati dal think tank britannico Autonomy e dall’Associazione per la democrazia sostenibile islandese, le due prove su larga scala avrebbero marcato un successo, per almeno due ragioni:
- il benessere dei lavoratori sarebbe aumentato;
- nella maggior parte dei luoghi di lavoro in cui è stata sperimentata la riduzione delle ore, la produttività e la fornitura di servizi sono rimaste immutate o sono persino migliorate.
In considerazione degli ottimi risultati raggiunti, è stato riservato all’86% della forza lavoro dell’Isola il passaggio a orari ridotti, o il diritto a sceglierlo.
Il caso del Belgio
Anche il Belgio, come annunciato a febbraio di quest’anno, ha ufficialmente riservato il diritto alla settimana lavorativa da 4 giorni. In realtà, in questo specifico caso, non si fa riferimento ad una vera e propria riduzione ma solo ad una concentrazione in quattro giorni delle ore prima spalmate su cinque (38 in tutto). In altre parole, si lavora per più ore al giorno ma solo per quattro giorni alla settimana. Il monte ore complessivo rimane inalterato.
In particolare si offre la possibilità di sperimentare per sei mesi questo genere di settimana corta: spetterà poi al singolo lavoratore, in accordo con il datore, decidere se farne una breve parentesi o la “norma”.
Per garantire un miglior equilibrio tra lavoro e vita privata, il Belgio ha anche abbracciato il cosiddetto “diritto alla disconnessione”. Una volta finito il turno, ciascun lavoratore può spegnere i dispositivi o ignorare messaggi, chiamate e e-mail “di lavoro” senza temere ripercussioni: verrà tutelato.
Al di là dell’Europa: negli Emirati Arabi Uniti si lavora da lunedì a venerdì
Il primo giorno di quest’anno ha segnato ufficialmente una svolta anche negli Emirati Arabi Uniti, dove è stata istituita la settimana lavorativa da quattro giorni e mezzo. Ciò vale tanto per l’ambito pubblico (inclusi uffici statali e scuole) quanto per quello provato.
All’insegna del riposo, dunque, il pomeriggio del venerdì ed il sabato e la domenica.
Una decisione rivoluzionaria, destinata ad essere accompagnata dall’adozione del weekend tanto caro anche agli Europei. Di fatto il fine settimana, che nella maggior parte dei Paesi islamici suole comprendere il venerdì e il sabato, è stato spostato a sabato e domenica.
Occorre precisa che, in questo caso, i rilevanti cambiamenti non sono stati accolti con favore da molte aziende, almeno non all’inizio.
Tra altre realtà e sperimentazioni
Interesserà anche sapere che in Francia, per esempio, la durata legale del lavoro è pari già da anni a 35 ore settimanali. Le ore svolte oltre questa soglia, per un massimo di 48 alla settimana (ad eccezione di derogazione dell’Ispettorato del lavoro fino a 60 ore), sono considerate straordinari.
Anche la Danimarca ha adottato un modello di 33 ore medie settimanali di lavoro.
A queste realtà piuttosto consolidate vanno accostate primi significativi approcci al cambiamento. Per esempio:
- anche in Spagna si ritiene che la riduzione dell’orario lavorativo non debba necessariamente essere accompagnato da un taglio di stipendi o di ricavati. Per tale ragione, si è riservato interesse a sperimentazioni con al centro il passaggio a 32 ore di lavoro;
- il Giappone ha iniziato a scegliere la settimana lavorativa da quattro giorni: ad adottarla, secondo quanto riferito dalla stampa locale già negli scorsi mesi, un numero crescente di aziende. Già nel 2019, Microsoft aveva sperimentato le 32 ore, riportando un aumento della produttività pari al 39,9% ed una netta riduzione dei consumi.
Da menzionare anche gli esempi registrati in Nuova Zelanda e negli Stati Uniti.
E in Italia?
Lungo la Penisola l’orario è ad oggi disciplinato dal Decreto legislativo 66 del 2003, in cui si indica che quello “normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali“.
Ma gli italiani si sono da poco lasciati alle spalle una campagna elettorale in cui, tra il resto, ha trovato spazio anche l’ipotesi di una riduzione di tale orario. Tale proposta figurava all’interno dei programmi di alcuni partiti ma, almeno per il momento e ad eccezione di scelte particolari di specifiche aziende private, non è ancora possibile parlare di un’attuazione.