Il cirneco dell'Etna è una delle più antiche razze italiane. La sua storia si confonde con la leggenda: alcuni lo fanno discendere dal dio egiziano Anubi, altri narrano che fosse il cane sacro del dio Adrano, capace di riconoscere i puri di cuore.
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Da millenni in Sicilia si trova una razza canina unica al mondo, tanto speciale che un dio dell’antichità la scelse come guardia del suo tempio. Corpo allungato e snello, orecchie ritte, muso a punta e portamento fiero. Stiamo parlando del cirneco dell’Etna, le cui origini si perdono tra storia e leggende.
Il cirneco si trova in Sicilia da almeno tre millenni e costituisce la razza di cane autoctona più antica in Italia. L’esemplare più remoto sarebbe stato ritrovato non lontano da Paternò e risalirebbe circa al 1400 a.C., ma è andato perduto. Di “Cani Cirenaici” parla anche Aristotele nella Historia animalium, senza riferirsi nello specifico al cirneco dell’Etna. Proprio questo aggettivo però può portarci a risalire il corso della storia, e a scoprire da dove viene questo cane unico.
Il professore Antonio Pagliaro ipotizza l’origine dell’aggettivo siciliano “cirnecu” (cirenaico) dal greco Kyrenaikòs, attraverso il passaggio dal latino *Cyrnaecus. Il luogo d’origine del Cirneco dell’Etna sarebbe quindi la regione libica tra l’Egitto e la Numidia (tra Tunisia e Marocco).
Altre teorie invece ipotizzano la presenza del cirneco nell’antico Egitto, dove sono stati rinvenuti bassorilievi e disegni di cani molto simili a quello alle pendici del vulcano. Alcuni lo fanno addirittura discendere da Anubi, divinità egizia protettrice del mondo dei morti. Da qui il cirneco dell’Etna trae la sua etichetta di “cane dei faraoni”. Sarebbe stato portato in Sicilia dai Fenici, che avrebbero utilizzato il cane originario della valle d’Egitto come oggetto di scambio pregiato.
Altri infine riconoscono gli antenati egizi del Cirneco, ma sostengono un’origine autoctona della razza siciliana. Raffigurazioni di questo cane dal profilo agile e dalle orecchie a punta, infatti, si trovano nella Villa del Casale di Piazza Armerina, ma soprattutto nella monetazione siciliana tra V e III secolo a.C. Monete con l’effige del Cirneco sono state rinvenute in tutta la Sicilia, ma le più antiche si trovano ad Adrano. È qui che storia e leggenda si incontrano e si fondono in un’unica narrazione dai contorni misteriosi.
Il nome stesso della città di Adrano sarebbe legato a un’antica divinità sicula un tempo adorata in tutta la Sicilia. Sui poteri del dio le fonti sono discordanti. Secondo alcuni aveva caratteristiche legate ai fenomeni naturali, come il fuoco dell’Etna e l’acqua del Simeto, due elementi presenti nei dintorni della città. Altri ritengono che fosse un dio della guerra capace di assumere forme canine. Infine, secondo l’etnologo Giuseppe Pitrè il suo nome deriverebbe dal dio Ador degli Assiri e sarebbe assimilabile a Efesto per i greci e Vulcano per i latini. Un fabbro, dunque, che nelle profondità del vulcano aveva la sua fucina.
Il dio Adrano e i cirnechi dell’Etna sono legati alla presenza di un antichissimo tempio, ormai perduto, che recenti ricostruzioni collocano a circa 8km a nord-ovest della città attuale. Del tempio parla lo storico romano Claudio Eliano nel suo Sulla natura degli animali. Scritto nel II secolo d.C., il volume riporta a sua volta fatti risalenti all’VIII secolo a.C. Qui leggiamo la più concreta testimonianza del legame tra il dio Adrano e il Cirneco dell’Etna, di cui i cani erano i servitori prediletti.
“Si trovano lì dei cani sacri, suoi servitori e ministri – si legge nella traduzione di Nicola Cusumano -, che superano in bellezza e grandezza i cani molossi, e sono di numero non inferiore al migliaio. […] durante il giorno accolgono festosamente dimenando la coda i visitatori che si recano al santuario o al circostante boschetto sacro […], durante la notte accompagnano con grande benevolenza, a guisa di scorta, quelli già ubriachi e coloro che non si reggono in piedi lungo il cammino, riconducendoli ciascuno alla propria casa. Fanno però espiare il giusto castigo a coloro che nell’ubriachezza commettono empietà: difatti li assalgono e lacerano la loro veste, e a tal punto li fanno rinsavire. Ma sbranano in maniera crudelissima coloro che provano a rubare gli abiti altrui“.
Da questa leggenda deriverebbe il detto siciliano, in uso ancora oggi, “Chi ti pozzanu manciari i cani” (che ti possano mangiare i cani).
La storia raccontata da Eliano attribuisce al dio e ai suoi servitori una funzione protettiva e di giudice. I cirnechi puniscono chi si macchia di un reato, aiutano ma insegnano una lezione agli ubriachi e sono affettuosi coi pii. I cani hanno in genere un gran fiuto, e si dice che possano anche sentire la paura, ma il cirneco dell’Etna sembra capace di qualcosa in più.
Forse per l’influsso divino di Adrano, forse per la discendenza da Anubi, forse perché è pur sempre un cane da caccia, il cirneco è capace di fiutare i puri di cuore, cioè coloro che andavano al tempio per rendere tributo. In Etna. Guida immaginifica al vulcano, Rosario Battiato narra la storia di Francesco Negro da Platia, un medico di Lentini che nel 1536, dopo una terribile eruzione, volle salire sul vulcano per scoprirne i segreti più profondi.
Il medico partì a piedi dal suo paese e in qualche giorno raggiunse le pendici del vulcano. Durante la scalata, però, finì accidentalmente nell’area del dio Adrano, mettendo piede nel bosco sacro. Qui venne subito investito da una carica di latrati, ma non se ne curò. Andò avanti, cocciuto ma dedito alla sua missione: scoprire i segreti dell’Etna. Ignorò così i latrati, che si facevano sempre più forti e minacciosi. Ma i cirnechi lessero nel cuore di Francesco e vi scoprirono il peccato peggiore: una curiosità senza devozione, che sfidava il dio a cui erano votati e minacciava di svelarne i misteri.
Per il medico di Lentini, a quel punto, non ci fu molto da fare. Alcune fonti riferiscono che di lui non restò nulla dopo la carica dei mille cani. Altri invece credono che il dio stesso l’abbia punito, colpendolo con un proiettile lavico sulla testa. In entrambi i casi, i segreti del vulcano rimasero al sicuro nel suo ventre di roccia e lava.
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