Al momento l’India è l’epicentro mondiale della pandemia. I dati ufficiali indicano oltre 20 milioni di contagiati e più di 230mila decessi, ma le cifre reali potrebbero essere molto più alte. Le cremazioni all’aperto dei corpi dei morti, gli ospedali stracolmi e lo sviluppo di una nuova variante del virus preoccupano anche all’estero. La comunità indiana è infatti tra le più presenti nei paesi occidentali e in molti, soprattutto giovani, studiano o lavorano in Europa, ma hanno amici e parenti ancora in India.
LiveUnict ha chiesto a due studenti indiani dell’Università di Catania e a uno studente residente in India ma coinvolto in un progetto di scambio a distanza con Unict di raccontare come vivono la seconda ondata nel loro Paese.
Coronavirus India: la situazione attuale
La media settimanale dei contagi in India è di circa 385mila nuovi casi ogni giorno, su un Paese di oltre 1,4 miliardi di abitanti. “Questo però non è il dato reale – esordisce Khwaja, studente di Economia in India –. Si fanno pochi test rispetto alla popolazione, così molti non sanno se sono positivi o meno e finiscono per contagiare altre persone. I test center sono attivi – continua – ma la gente è riluttante: preferiscono affrontare la malattia a casa che finire nei centri per la quarantena governativi”.
La diffusione del contagio sarebbe alimentata dal fatto che il governo centrale non ha proclamato il lockdown nazionale. Alcuni stati più colpiti hanno attivato un lockdown totale di 10-15 giorni, ma sono una minoranza. Per il resto, le restrizioni sono molto più blande: coprifuoco notturno, lockdown nei fine settimana e altre regole anti-contagio. “Ogni ora – spiega Khwaja – muoiono almeno quattro persone nella regione capitale di Delhi. Le strutture mediche sono al collasso negli stati più colpiti: molti muoiono non per il Covid ma per la mancanza di bombole d’ossigeno e di medicinali essenziali“.
Spicca poi la mancanza di vaccini, in uno dei maggiori produttori mondiali di dosi. Tra gli altri fattori che avrebbero portato al picco di casi in India ci sono anche le elezioni tenutesi in diversi stati, con comizi affollati, zero distanze di sicurezza o mascherine, malgrado gli avvertimenti sulla nuova variante da parte del comitato scientifico indiano. “L’india si aspetta di raggiungere il picco a metà maggio, poi la curva dovrebbe finalmente cominciare ad appiattirsi”, conclude Khwaja.
Oltre ai problemi sanitari, anche vita accademica e mondo lavorativo sono in crisi. L’università al momento si svolge tutta a distanza e, malgrado il periodo critico, le scadenze per esami scritti e orali rimangono invariate. “Purtroppo anche chi ha perso i propri genitori, nonni o qualche caro a causa del Covid ha comunque compiti ed esami da dare in un breve periodo – afferma Khwaja – . Alcune università hanno posticipato gli esami, altre no”.
A lavoro, la situazione cambia a seconda del settore aziendale pubblico o privato. Molti sono stati licenziati perché i loro datori di lavoro non potevano pagargli lo stipendio, racconta Khwaja. La crisi colpisce tanto gli impiegati quanto gli impresari stessi. Peggio va nel settore pubblico, dove il lavoro scarseggia ancora di più. “Molti lavoratori – conclude lo studente indiano – vengono scaricati per l’inaffidabilità delle aziende“.
Gli studenti indiani Unict tra tentativi di aiuto e timori
Migranti, studenti, lavoratori che cercano di realizzarsi o formarsi altrove: sono circa 30 milioni gli indiani sparsi nel mondo. Con la seconda ondata di contagi in India, le reazioni della comunità indiana all’estero è stata varia.
“Il sistema sanitario è sovraccarico, anche se molti continuano a donare – spiega Akshat, che studia Glopem all’Università di Catania -. Tanti indiani stanno dando il loro contributo per provare a migliorare la situazione. Fanno del loro meglio, ma qui ci sentiamo impotenti. Io e i miei amici proviamo a fornire i contatti d’emergenza a chi ne avrebbe bisogno attraverso i social, ma è triste sapere che non possiamo fare nulla”.
Anche Umesh, studente di Ingegneria a Unict, si trova in condizioni simili: “Non ho partecipato a iniziative solidali, ma mi piacerebbe poter collaborare localmente da qui. Al momento possiamo solo avere fede e sperare che la situazione torni alla normalità al più presto. Molti Paesi stanno aiutando l’India – continua – e numerosi influencers stanno facendo del loro meglio. È il caso di Jayshetty, uno youtuber che vive in Inghilterra e ha organizzato una raccolta fondi tramite diretta streaming”.
Tra i primi stati in Europa a inviare aiuti all’India c’è anche l’Italia. Negli scorsi giorni un team italiano ha installato un sistema di autoproduzione d’ossigeno donato dal Piemonte, in grado di rifornire l’intero ospedale di Greater Noida. Dall’EU sono arrivate anche apparecchiature mediche, ventilatori e farmaci anti-Covid. Tuttavia, il picco dei contagi non è stato ancora raggiunto e la paura è tanta nel Paese.
“I miei nonni e mia madre hanno ricevuto il vaccino AstraZeneca – racconta Akhsat – e la prossima dose sarà probabilmente a maggio“. Non tutti, però, sono altrettanto fortunati. La carenza di vaccini è un problema in India, dove solo il 3% della popolazione è stata immunizzata e dove solo il 9,2% ha ricevuto almeno una dose. “Circa l’80% di quelli che hanno ricevuto la prima dose non hanno ricevuto la seconda – spiega Umesh -. C’è un deficit di organizzazione e di stoccaggio adeguato delle dosi necessarie. Anche i miei genitori sono stati vaccinati – continua – ma per la situazione di panico sono anche spaventati”.
L’arrivo della variante anche in Italia, infine, sembra aver provocato alcune discriminazioni contro la comunità indiana, malgrado sia manifestatamente acclarato che il virus colpisce chiunque, a prescindere dalla nazionalità. È successo a Casandrino, in provincia di Napoli, dove un consigliere comunale ha chiesto alla giunta un “monitoraggio sull’ingresso dei cittadini indiani“. Succede anche nell’Agro Pontino, dove alcune testate hanno riportato casi di presunta variante indiana tra i braccianti sikh. Ulteriori approfondimenti, invece, hanno dimostrato che il focolaio è nato per casi di sfruttamento e caporalato, con braccianti positivi costretti a lavorare senza dispositivi di protezione individuale.
A Catania, invece, l’esperienza sembra essere molto diversa. “Secondo la mia esperienza personale, né io né i miei amici abbiamo subito alcun tipo di discriminazione“, commenta Akshat. Stessa conferma arriva da Umesh: “Vivo in una residenza ERSU e non ho mai incontrato nessuna discriminazione. Anzi, tutti sono gentili e continuano a chiedermi qual è la situazione in India“.