Università in pillole

Università, la lettera di una studentessa: “Nessuno parla di noi universitari”

Aula universitaria
In una lettera aperta una studentessa di Trento chiede che vengano riaccesi i riflettori sul tema "università", trascurato da mesi a causa del Covid.

Ai tempi del Covid si parla incessantemente di sanità, lavoro, scuola, libertà, economia e tempo libero. In tutti questi mesi, però, si è avuta l’impressione che una parola fondamentale sia stata dimenticata non solo da Governo e Parlamento, ma anche da mezzi di informazione e opinione pubblica. La parola “università“. È questa a sensazione che migliaia di studenti nutrono ormai da mesi, sentendosi dimenticati e in balia di sé stessi. Quest’impressione emerge anche dalle parole di Laura, studentessa di Trento, che ha deciso di inviare una lettera aperta, pubblicata su “Vanity Fair”, per riaccendere un dibattito che sembrerebbe non interessare a nessuno. Chi pensa agli universitari?

Cara Scuola,

Non ci vediamo ormai da qualche anno, anche se io non ho mai smesso di studiare. Adesso frequento la tua sorella più grande, l’università. Come spesso accade ai fratelli minori, ci sei sempre tu al centro dell’attenzione, quando si parla di istruzione. Sono contenta che, finalmente, i riflettori siano puntati su di te: i problemi che ti attanagliavano quando ti venivo a trovare ogni giorno non hanno mai avuto la giusta attenzione.

Le difficoltà che sta passando la tua sorella università, invece, sono fuori dai radar, perché – come sempre – dai fratelli maggiori ci si aspetta responsabilità.

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Responsabilità è una parola bellissima, perché contiene la parola «risposta». Di fronte alla richiesta di fare la nostra parte per contenere il contagio, noi universitari abbiamo risposto, cercando di fare del nostro meglio.

Abbiamo continuato a studiare e a dare esami, siamo stati bocciati agli esami perché la connessione non era abbastanza stabile, abbiamo completato consegne ricevute a tutte le ore del giorno e della notte tramite mail inviate senza preavviso, abbiamo scritto la tesi con le biblioteche chiuse, abbiamo installato sul PC un software che controlla perfino i nostri movimenti oculari quando svolgiamo una prova scritta, abbiamo rinunciato a un anno intero di opportunità relazionali, ci siamo laureati in ritardo perché il Covid ha impedito i tirocini, abbiamo rinunciato all’Erasmus, abbiamo deciso di non frequentare le lezioni per lasciare il computer o la connessione ai nostri fratelli più piccoli in dad.

Ma di fronte alla nostra richiesta di aiuto non c’è stata risposta, non c’è stata responsabilità. Sto cominciando il sesto semestre di giurisprudenza, il terzo a distanza. Non pretendo di tornare in aula, anche se lo desidero, perché mi rendo conto che l’apertura delle università creerebbe una forte pressione sul sistema dei trasporti e di riflesso sul sistema sanitario. Però mi piacerebbe che di università si parlasse, ogni tanto. Magari in qualche elenco distratto del TG, in qualche talk show del pomeriggio o della notte, se non in Parlamento.

Mi piacerebbe che si parlasse della difficoltà delle famiglie che continuano a pagare tasse universitarie invariate in questo periodo di incertezza economica. Che si parlasse del disagio psicologico degli studenti, degli attacchi di panico, dei disturbi alimentari. Mi piacerebbe che si parlasse di quelli che in questi 10 mesi si sono laureati, e che hanno trovato sbarrate le porte del mondo del lavoro. Mi piacerebbe che si parlasse di quelli che si mantenevano gli studi facendo i camerieri e che, avendo perso il lavoro, non possono più permettersi l’università. Mi piacerebbe che si parlasse di tutti i sacrifici necessari per noi in questa situazione.

Sai, cara scuola, quando ero tra i tuoi banchi e mi lamentavo delle cose che non funzionavano, mi sentivo dire dagli adulti: «Non voti, non ti ascolteranno mai». Adesso, però, io voto, pago le tasse (universitarie, ma pur sempre tasse), lavoro anche un pochino, ma sono comunque invisibile. La cosa che mi rende più triste di tutte è che la mia generazione non è il futuro di questo Paese (come si dice), ma è il presente di questo Paese. Noi che oggi siamo universitari, tra uno, due, tre anni, saremo lavoratori. Com’è possibile che a nessuno importi il livello di preparazione che avremo? Com’è possibile dimenticarsi di un’intera generazione di adulti, di elettori, di contribuenti, di sognatori?

Ma sto sbagliando a dirle a te queste cose, cara scuola, perché anche tu stai facendo la stessa domanda da anni e nessuno ha ancora risposto.

Laura, Università degli Studi di Trento