La pandemia ha messo in pausa anche battaglie e conquiste delle donne? Le notizie provenienti da tutto il mondo ribadiscono il contrario. Ecco quali traguardi sono stati tagliati nel corso dell'anno che volge al termine.
A poche ore dalla fine di questo 2020, vale la pena voltarsi indietro ed analizzare, magari con occhio più obiettivo, quello che l’Italia, insieme al resto del mondo, ha vissuto.
La conta quotidiana di decessi e nuovi casi e l’annuncio delle ultime misure presto in vigore hanno inevitabilmente sottratto dello spazio ad altre narrazioni. Eppure, numerose incredibili storie sono state scritte in questi ultimi 365 giorni, da donne e per le donne.
Oggi, vale la pena risfogliarle per ricordare che, anche nell’anno mascherato da eterno ed incerto presente, qualcuno ha costruito un po’ di futuro.
Vale la pena ripercorrere le battaglie vinte a ritroso, spostandosi, prima che altrove, in Danimarca. Di fatto qui, lo scorso 17 dicembre, il parlamento ha proceduto con l’approvazione della nuova “legge sul consenso”. Con questa nuova normativa, dal prossimo 1° gennaio, ogni rapporto in cui il consenso non sia stato esplicitato verrà considerato un stupro. E punito in quanto tale.
Questo Paese ha dovuto attendere diversi anni prima di tagliare questo traguardo e divenire il dodicesimo tra quelli europei decisi a condannare questo genere di rapporto sessuale.
In effetti, la discussione sulla riforma della legge ha preso avvio nel lontano 2008 e grazie soprattutto ad Amnesty International.
L’organizzazione non governativa internazionale impegnata nella difesa dei diritti umani aveva, di fatto, reso pubblico un rapporto in cui si evidenziava il basso numero di stupri considerati e giudicati correttamente e coerentemente. Secondo quanto indicato da quest’ultimo, ogni anno in Danimarca 11.400 donne sono sottoposte a stupro o a tentato stupro. Eppure, nel corso del 2019 vi sono state solo 1017 denunce di stupro che hanno dato luogo a neanche 80 condanne.
Per quale motivo? Questi numeri sarebbero frutto di un fenomeno tanto semplice quanto discutibile: fino al 2013, l’appellativo di “stupro” è stato attribuito solo in caso di prove di violenza, minacce o coercizione. Successivamente, è stata aggiunta alla “lista” anche i casi con vittime incapaci di resistere, magari perché incoscienti.
L’importanza riservata al concetto di consenso, al contrario, è recentissima, stabilita dalla Convenzione di Istanbul ma non ancora realmente presente, per esempio, in Italia.
Consapevole di ciò, Amnesty International Italia ha di recente lanciato una campagna e chiesto al Ministro della Giustizia la revisione dell’articolo 609-bis del codice penale (che, anche in questo caso, prevede che il reato di stupro sia necessariamente collegato agli elementi della violenza, o della minaccia o dell’inganno, o dell’abuso di autorità), affinché qualsiasi atto sessuale non consensuale sia reso punibile.
Assorbenti e prodotti per il ciclo mestruale forniti in maniera totalmente gratuita e a chiunque ne abbia bisogno: non è un’utopia, bensì l’iniziativa formalizzata a inizio anno e resa legge dal Parlamento scozzese soltanto qualche settimana fa.
Di fatto, il 24 novembre, è stato approvato all’unanimità il cosiddetto Period Product (Free Provision) Bill, con cui l’accesso gratuito a questi prodotti igienici si è trasformato in un diritto legale.
Gli assorbenti, dunque, dovranno essere messi a disposizione sia dalle autorità locali, sia dai responsabili di scuole ed istituzioni educative in giro per le varie contee del territorio più settentrionale del Regno Unito.
Tale provvedimento normativo, il primo al mondo a garantire una fornitura gratuita e universale, avrebbe un duplice obiettivo: combattere la “povertà mestruale” e fare in modo che le donne non considerino più il ciclo un tabù su cui tacere e di cui vergognarsi.
“È un segnale al mondo – ha annunciato Monica Lennon, deputata che aveva presentato il disegno di legge – che l’accesso universale gratuito ai prodotti per le mestruazioni può essere garantito“.
Lo scorso 22 ottobre, la Corte Costituzionale di Varsavia ha giudicato l’interruzione di gravidanza, anche nel caso di malformazione o malattia del feto, “incompatibile” con la Legge fondamentale dello Stato e, di conseguenza, incostituzionale. Una sentenza, questa, destinata, a cancellare con un colpo di spugna le possibilità di scelta delle donne.
L’aborto veniva reso, in tal modo, esplicitamente possibile solo in caso di stupro, incesto o di pericolo per la salute e la vita della madre. Ma in maniera implicita, considerando che il 98% delle donne ricorre all’interruzione per via di gravi e irreversibili anomalie del feto, veniva bandito quasi totalmente.
La decisione si è trasformata, in poco tempo, in tema di dibattito e motivo di dissenso. La Polonia ha assistito, per settimane, ad alcune tra le più grandi proteste di massa viste nella più recente storia del Paese.
Basti pensare che lo scorso 28 ottobre migliaia di donne hanno scelto di assentarsi dal lavoro in segno di protesta. I cortei, tuttavia, hanno coinvolto anche uomini e, con il passare del giorno, sfilato per le strade di Varsavia e di altre città con un secondo scopo: ottenere le dimissioni del governo.
Anche gli europarlamentari avrebbero scelto di schierarsi contro il testo, adottato in Polonia con 455 voti favorevoli, 145 contrari e 71 astensioni: di fatto, secondo il Parlamento Europeo, tale stretta potrebbe comportare una crescita del tasso di aborti clandestini e, dunque, non sicuri per la salute delle donne.
Le mobilitazioni non sono state rallentate dal Coronavirus ma hanno, al contrario, rallentato e messo in difficoltà il governo, con a capo il partito di destra Diritto e Giustizia (PiS). Questo, di fatto, non ha proceduto con la pubblicazione della sentenza in Gazzetta ufficiale, prevista per lo scorso 2 novembre.
Nel corso dell’ultimo primo giorno di maggio, apparentemente comune a qualsiasi altro, le principali testate italiane hanno titolato qualcosa come “In Sudan le mutilazioni genitali femminili diventano reato”.
Il mondo ha potuto applaudire, in tal modo, la scelta del nuovo governo di vietare quelle pratiche che prevedono la rimozione parziale o totale degli attributi genitali femminili esterni e che risultavano, almeno fino a quel momento, assai radicate. Queste, in effetti, sono una realtà in almeno 27 Paesi africani, oltre che in zone dell’Asia e del Medio Oriente.
Si pensi inoltre che, secondo quanto indicato da UNICEF, in Sudan il ben 87% delle bambine e delle donne di età compresa tra i 15 e i 49 anni ha subìto tali pratiche tradizionali che, va ricordato, non vengono eseguite con finalità terapeutiche ma, al contrario, celano motivazioni puramente culturali o valenze religiose.
Ma nel 2020 è ancora possibile accettare mutilazioni destinate a compromettere la salute psichica e fisica di numerosissimi esseri umani? Il divieto inserito solo pochi mesi fa in un emendamento al codice penale del governo provvisorio del Paese (subentrato dopo trent’anni di dittatura di Omar Hassan al-Bashir) ha indicato, seppur estremamente tardi, di no.
Secondo quanto riportato dal The New York Times, la nuova legge sarebbe stata accolta dagli attivisti per i diritti delle donne come una grande vittoria. Con questa, sarà possibile condannare a tre anni di carcere, oltre che punire con una multa, chiunque pratichi mutilazioni genitali all’interno dei confini del Sudan.
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