Con South Working, un team di giovani professionisti prova a ribaltare l’immagine del lavoratore che dal Sud è costretto a spostarsi al Nord lasciando indietro legami e ricordi. Ne parla con Live Unict la presidente dell’associazione.
Cerchi concentrici di cambiamento. È questa l’immagine con cui si può sintetizzare South Working secondo le parole della sua stessa fondatrice, Elena Militello. Siciliana, 27 anni, assegnista di ricerca all’Università del Lussemburgo, assieme a un team di giovani professionisti provenienti nella maggioranza dei casi dal Meridione ha formato un’associazione no-profit che si pone un obiettivo semplice e rivoluzionario: permettere ai lavoratori di scegliere da dove lavorare, svincolati dalla presenza fisica nelle sedi.
Nato durante i giorni del lockdown, il progetto è cresciuto e ha riscosso l’attenzione di media, aziende, studiosi e, soprattutto, lavoratori, che tramite South Working hanno iniziato a fare rete e a condividere esperienze e idee. La fondatrice del progetto ne ha parlato con Live Unict, cominciando dalle politiche necessarie per incentivare il fenomeno e dai vantaggi che questo comporta.
Lavorare da dove si desidera, infatti, non è utile solo per i lavoratori. L’idea alla base del progetto è di avvantaggiare sia i “south-workers”, che lavorano prevalentemente dal Sud ma per aziende del Nord o all’estero, sia i datori di lavoro, che tramite questa modalità e gli opportuni accorgimenti possono migliorare produttività dei dipendenti e risparmiare sui costi. La politica, nazionale e soprattutto locale, gioca però un ruolo fondamentale per il successo dell’iniziativa.
Nel primo caso, con la riduzione del 30% dei contributi per i lavoratori residenti al Sud e il conseguente abbassamento del cuneo fiscale, si pongono le premesse per incentivare le assunzioni. “Auspichiamo che la misura venga estesa anche ai lavoratori che sono residenti al Sud ma dipendenti al Nord – dichiara al riguardo la fondatrice di South Working –. Diverso è l’ambito delle politiche degli enti locali per lo sviluppo del Sud, perché se, come noi crediamo, la possibilità di slegare il lavoro dalla sede del datore di lavoro per alcune professioni sarà sempre più ampia, allora i lavoratori potranno scegliere dove andare a vivere sulla base della qualità della vita percepita”.
Se per attivare questa modalità di lavoro agile, come sottolinea la presidente dell’associazione, bastano un aeroporto nelle vicinanze, una connessione internet a banda larga e degli spazi di co-working, per attrarre i south-workers lo “starter pack” da solo non è sufficiente. “Se si vogliono attrarre dei lavoratori nei territori meno sviluppati bisognerà attivare una serie di servizi e infrastrutture che rendono la qualità della vita percepita migliore – aggiunge –, dal trasporto pubblico alla cura delle generazioni più giovani e specularmente anche per gli anziani, per evitare che sui lavoratori e soprattutto le lavoratrici pesi una sorta di doppio o triplo carico di lavoro, come successo durante questi mesi”. Bisogna, insomma, stimolare una “riflessione su cosa si può fare per migliorare l’attrattività dei territori”.
Non ci sono ancora dei dati statistici precisi sul numero di south-workers, ma il rapporto Svimez in uscita a ottobre presenterà i risultati di un sondaggio esplorativo fatto girare tra i lavoratori della rete di South Working. “Il focus – dichiara la presidente dell’associazione – conferma che ci sono dei lavoratori che sarebbero disposti a spostarsi, almeno per una parte dell’anno, nei territori meno sviluppati anche prima del miglioramento di servizi e infrastrutture”.
Non si tratta di un dato di poco conto. I “cervelli di ritorno” nelle regioni meridionali, pur lavorando per aziende del Nord o all’estero, potrebbero produrre ricchezza al Sud sotto tre punti di vista: in termini prettamente economici, facendo rete tra loro e aiutando le amministrazioni a sviluppare nuovi progetti per migliorare infrastrutture e servizi.
“L’idea di base del progetto – dichiara ancora Elena Militello – è che avere dei lavoratori in più al Sud stimoli l’economia meridionale, in primo luogo a livello di consumi, con tutto l’indotto derivante dalla presenza fisica dei lavoratori, tendenzialmente molto qualificati e con stipendi medio-elevati in territori in cui c’è un drenaggio di capitale umano”.
Non si tratta, però, di una questione solo economica. “A nostro parere – continua – è importante valutare gli impatti in termini di investimenti, con soggetti che non restino isolati ma che facciano massa critica e dialoghino tra loro. Vogliamo costruire una rete con persone di settori diversi, stimolando un unico sistema creativo che possa anche generare nuove startup di incubazione di idee”.
Infine, un aspetto non meno importante è quello di rafforzare il sentimento di comunità tramite il progetto. “Non basta tornare dicendo ‘va tutto bene’ – conclude Elena – ma bisogna comprendere che ci sono delle cose che non vanno bene e che possono essere migliorate, magari portando delle competenze specifiche e restituendo qualcosa alle comunità che si sceglie di vivere. L’idea è sempre quella di stimolare il sistema non pensando al beneficio per il singolo, ma anche a un sentimento di partecipazione”.
“Stiamo iniziando a pensare a progetti-pilota con aziende che vorrebbero sperimentare lo smart working a lunga percorrenza, in cui i lavoratori non soltanto non vengono in ufficio, ma non potrebbero essere richiamati in ufficio in poche ore”, afferma la presidente di South Working. Gli studi relativi al lavoro agile, infatti, dimostrano che è possibile “aumentare la produttività tra il 10 e il 20%, passando da un lavoro per orari a lavoro per obiettivi”. Un valido motivo d’interesse per l’Italia, che, come precisa poi Elena, ha uno dei livelli di produttività più bassi in Europa.
Si tratta, del resto, di studi consolidati che precedono anche l’emergenza sanitaria, ma su cui fanno leva i south-workers per incentivare questa modalità lavorativa a grande distanza. In questo modo, si realizzerebbe un’importante “riduzione di alcuni costi per le aziende, quali le postazioni di lavoro, gli uffici, localizzati in città tra le più care sui territori e – prosegue la presidente dell’associazione – un miglioramento del clima aziendale, obiettivo tenuto molto in considerazione tra le strategie di responsabilità sociale d’impresa delle grandi aziende. Il modo in cui il lavoratore percepisce la propria qualità della vita, infatti, può avere un impatto sulla sua produttività”.
Tuttavia, l’obiettivo di South Working non è quello di remotizzare quante più professioni possibili. “Proprio perché l’Italia deve ancora cambiare mentalità – conclude la fondatrice del progetto -, vogliamo adottare un approccio incrementale partendo da piccoli progetti o idee con cerchi concentrici di cambiamento”. Per questa ragione, si privilegiano professionisti che abbiano acquisito una certa esperienza e mansioni che sia possibile svolgere facilmente in remoto. “L’idea è quella di espandere questa esperienza, a partire dai settori IT, a molti altri – dichiara ancora Elena Militello -. Bisogna però valutare diversi fattori, come la capacità del lavoratore di lavorare a distanza e autonoma, la fiducia dell’azienda per quest’ultimo e il senso di responsabilità del lavoratore per l’azienda a cui appartiene. Sono quindi mansioni di una certa responsabilitàm che non hanno bisogno di on-boarding”.
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