Categorie: Utility e Società

Lavorare di meno rende più felici? La scienza prova a rispondere

Come il lavoro d’ufficio, lo studio serrato è la fonte primaria dello stress che accusano molti studenti. Certo, rispetto agli operai delle prime fabbriche, studenti e lavoratori di oggi possono considerarsi ben più fortunati: diritti e riduzione delle ore di fatica sono stati ottenuti da tempo. Ma un’altra rivoluzione (quella digitale) ha apportato dei grandi cambiamenti su questo versante.

Tutti gli attrezzi del lavoro sono disponibili 24 ore su 24, 7 giorni su 7 a casa, per le vie dello shopping e persino in spiaggia. Quindi, si può ancora dire che il lavoro in ufficio occupa davvero meno tempo nelle giornate degli impiegati? E se davvero lavorano di meno, questo li rende felici?  La scienza prova a dare delle risposte. I risultati non sono per nulla ovvi.

Lavorare troppo fa male, ma, sorprendentemente, anche lavorare di meno non fa poi così bene. È quello che emerge comparando i risultati forniti da diversi studi che affrontano questo stesso tema. Da un lato viene confermato che chi impiega oltre 55 ore del suo tempo nell’attività professionale in un ufficio ha il 13% in più di probabilità di incorrere in malattie coronariche e il 33% in più di rischiare un infarto o un ictus, rispetto ai colleghi che lavorano per 35- 40 ore. Mentre altri studi evidenziano che lavorare di meno non si può proporre come rimedio alla preoccupante situazione vista sopra.

Infatti, una ricerca dello Swedish National Institute of Working Life ha verificato che lavorare di meno non è una garanzia di un buon mantenimento dello stato di  salute dei lavoratori. Andiamo nel dettaglio. I ricercatori si sono concentrati su un campione omogeneo: 500 dipendenti della pubblica amministrazione. I colleghi sono stati suddivisi in due gruppi, differenziati solo dalla quantità di ore che li vedeva impegnati. Per 18 mesi, metà dei dipendenti è passata dalle 8 alle 6 ore di lavoro al giorno mentre l’altra metà ha mantenuto il classico orario di 8 ore lavorative. Nessuna riduzione di stipendio è stata prevista per chi avrebbe lavorato di meno. Alla fine del periodo sono state analizzate le condizioni di salute del campione. Le conclusioni a cui sono giunti i ricercatori non sono state esattamente quelle previste. In sostanza, alla luce degli effetti misurabili, si è riscontrato che tra i lavoratori che avevano lavorato di meno nessuno ha riscontrato dei miglioramenti nelle condizioni di salute. Nessun abbassamento del livello dell’ormone dello stress (il cortisolo), nessuna riduzione dei giorni di malattia richiesti. Nulla. Anzi, uno studio simile svolto tra i lavoratori della città svedese di Umeå ha confermato una tendenza completamente inaspettata: i lavoratori che erano impegnati in attività professionale per meno ore erano stati gli stessi che avevano richiesto più giorni di malattia.

A questi dati, che si scontrano con il sentire comune per cui lavorare di meno renderebbe più sani, si oppongono però altri studi. In particolare una ricerca svolta tra i dipendenti di una casa di riposo di Göteborg, in Svezia ha messo in luce che il campione a cui erano state ridotte le ore di lavoro, è stato lo stesso che ha chiesto meno permessi per malattia. Come spiegare allora questi dati conflittuali? Probabilmente con il carico maggiore di lavoro. Infatti, spesso ad un orario alleggerito non corrisponde una riduzione del carico e delle mansioni da portare a termine. Il che significa dover mantenere la stessa quantità di lavoro prodotto, ma in meno tempo. Addirittura c’è chi, come i dipendenti di Agent Marketing (un’agenzia di Liverpool), dopo due anni di  brevi giornate lavorative hanno chiesto di tornare alle 8 ore giornaliere, accusando di essere maggiormente stressati per via del minor tempo in cui potevano svolgere le attività assegnate.

D’altro canto non mancano coloro che invece sperimentano una situazione del tutto diversa. A dimostrazione di ciò, si può annoverare l’ingresso nel lessico giapponese della parola “karoshi” che indica la morte causata proprio dagli effetti del sovralavoro.

Chiara M. Emma

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Chiara M. Emma

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