Adesso dirige la Banca dei Cervelli a New York, ma per raggiungere il suo sogno ha incontrato diversi ostacoli. Si tratta di Sabina Berretta, 56 anni, che sta dedicando la sua vita alla ricerca.
Laureatasi all’Università di Catania, Sabina Berretta non riusciva a mantenersi in Italia. Per le sue ricerche, come avviene spesso con quelle di altri dottorandi, non era prevista alcuna retribuzione, tanto che la donna aveva pensato anche a un posto da bidella per mantenersi gli studi. Ma non avendo avuto nemmeno questa chance, decise anni fa di partire per l’America. Adesso dirige l’Harvard Brain tissue resource center del McLean Hospital di Boston: si tratterebbe di una grande banca dei cervelli. “Qualcuno dice che il mio laboratorio somiglia a quello di Frankenstein. Naturalmente non è così, ma, certo, abbiamo 3 mila cervelli nei container. Pochi per le esigenze di una ricerca scientifica che ormai conta su strumenti, quelli sì, fantascientifici”, ha spiegato Sabina a la Repubblica.it.
“Sono siciliana, vengo da Catania. – spiega Sabina Berretta – Dopo il liceo volevo studiare filosofia, ma sapevo che non mi avrebbe permesso di sopravvivere: e siccome ero una sportiva mi iscrissi all’Isef. Insegnando ginnastica, pensai, avrò tempo per studiare filosofia, prendere una seconda laurea. Fu preparando la tesi dell’ultimo anno che scoprii la mia vocazione. Il professore che insegnava fisiologia all’Isef era un docente di medicina. Entrai nel suo laboratorio dove facevano studi sul cervelletto. Capii subito che era quello che m’interessava davvero. Misi da parte lo sport e cominciai a studiare medicina a Catania”.
“Benissimo, continuai a fare ricerca in quel laboratorio e mi laureai con lode in neurologia. – continua – Solo che le ricerche nessuno me le pagava: ero una volontaria. E anche da laureata non c’era posto per me. In quell’istituto si liberava però un posto da bidello: pensai che poteva essere un modo per guadagnare dei soldi continuando a studiare. Dopo aver spazzato i pavimenti, insomma, potevo andare in laboratorio e proseguire le ricerche con uno stipendio su cui contare. Non vinsi nemmeno quel posto: eravamo troppi a farne richiesta”.
Ma le cose non andarono come previsto. Sabina Berretta decise di andare in America e lì arrivò la svolta: “Proposi il mio lavoro ad Harvard: studiavo gli effetti della schizofrenia sul cervello – conclude – e lì c’era la banca dati più importante del mondo. Avevo bisogno di lavorare sul tessuto umano per far progredire le mie ricerche perché fino ad allora avevo analizzato solo modelli animali. Prima ho lavorato con la direttrice del centro, poi sono diventata una ricercatrice indipendente, con budget e staff. Quando la direttrice è andata in pensione, ero quella che conosceva meglio l’archivio dei cervelli: darmi il suo posto fu la scelta più ovvia”.
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