“Saper scrivere è così importante?” è il titolo dell’articolo del professor Claudio Giunta ne Il Sole 24 ore, in cui denuncia le carenze linguistiche di uno studente, ma ancor più palesa la sua indignazione verso un’Italia di “scriventi” e non di “scrittori“.
Il professore, docente di Letteratura italiana alla Facoltà di Lettere, dichiara di aver promosso uno studente con 18, pur ritenendo di doverlo bocciare perché, oltre a non conoscere bene il programma, non riesce ad esprimersi in un italiano corretto. Ma la ragione per la quale lo studente, dopo il quarto tentativo, è stato promosso è più complessa di quel che sembri.
Sentendo il peso di una responsabilità che va ben oltre gli ideali di un professore, o meglio di una persona, il docente dichiara di averlo promosso perché “il mio è ‘il suo ultimo esame’, la tesi è già pronta da tempo (…). Bocciarlo ancora avrebbe voluto dire impedirgli di laurearsi, fargli buttare via gli studi di cinque anni, rovinargli l’esistenza“. Aggiunge che la politica delle “porte aperte” ha fatto sì che a Lettere s’iscrivessero studenti “che non avrebbero bisogno di fare l’università ma di fare o rifare un buon liceo (…). Lo studente a cui ho dato 18 è uno dei tanti: nelle sue condizioni, o peggio, si trova la maggior parte degli studenti che s’iscrivono a Lettere. Bocciarli tutti? È quasi impossibile.
Perché bocciare a ripetizione la metà o più dei candidati all’esame di Letteratura italiana vorrebbe dire in pratica bloccare le carriere di decine e decine di studenti, con ovvie ripercussioni sulla vita dell’intero dipartimento. Perché le università vengono premiate dal Ministero anche in ragione della rapidità con cui gli studenti concludono i loro studi. Perché bocciare qualcuno perché non sa scrivere non è così facile. Abituati a ‘badare al contenuto e non alla forma’, molti studenti non riescono a capire perché io dia tanta importanza ai loro errori o alla loro sciatteria nello scrivere (…). Offesi da questa ingiusta persecuzione, possono, a norma di regolamento, rivolgersi al rettore o al direttore di dipartimento per chiedere di fare l’esame (oralmente) con un altro docente della stessa materia. Supereranno l’esame, si laureeranno; e alcuni andranno a insegnare“.
A pensarla così non è certo l’unico. Negli ultimi anni molte università sentono la necessità di attivare dei corsi di lingua italiana scritta, perché si pensa che la scuola stia progressivamente depotenziando il metodo di apprendimento delle competenze linguistiche basilari per l’accesso all’università. Molte università lo hanno già fatto (l’università di Catania rientra tra queste).
Se è vero che si pensa come si parla, allora bisogna affrontare il problema alla radice, riformando il sistema scolastico, che sembra sottovalutare l’importanza di un dettato, di un’analisi grammaticale o logica, di un riassunto. L’università, tuttavia, non può e non deve colmare le lacune conseguite durante il percorso scolastico: ci si limita quanto meno a trovare delle potenziali alternative al progressivo declassamento linguistico, nella speranza che questo rimanga in futuro soltanto un brutto ricordo.
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