Si tratta di diffamazione aggravata perché commessa a mezzo di stampa. Facebook è pur sempre una “piazza virtuale”, in aggiunta al già “luogo aperto al pubblico” in tema di molestie art. 660 c.p. Un messaggio pubblicato sulla propria bacheca ha la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, no? Allora ricostruiamo il percorso di questa importante pronuncia.
Così come riportato da Altalex.com e Giurisprudenziapenale.com, il fatto fu esaminato dal Giudice di pace di Roma, il quale aveva dichiarato la sua incompetenza in materia, fu chiamato a giudicare una fattispecie diffamatoria. Il Tribunale di Roma, che non riteneva configurabile l’aggravante viceversa considerata dal giudice di pace, in primo grado condannava l’imputato, ai sensi dell’art 595, co.3 c.p., ad una pena pecuniaria per aver danneggiato la reputazione dell’allora Commissario Straordinario della Croce Rossa Italiana, pubblicando sulla propria bacheca di Facebook alcune frasi (talvolta anche associate alle immagini della persona offesa) dal contenuto diffamatorio (in particolare, la vittima veniva definita quale ”parassita”, “cialtrone”, “mercenario”). L’imputato fece ricorso in Cassazione rilevando che le prove riportate dall’accusa non avessero alcun valore probatorio ma la Cassazione, in sede di motivazione, ha colto l’occasione per confermare la giurisprudenza intervenuta con riguardo alla configurabilità del delitto di cui l’art 595, co.3, c.p., nell’ipotesi di pubblicazione/diffusione, a mezzo di internet, di contenuti lesivi dell’altrui reputazione.
A tali conclusioni la Corte è pervenuta ricordando innanzitutto che i reati di ingiuria e diffamazione possono essere commessi a mezzo di internet (Cass.,Sez.V, 17 novembre 2000, n. 4741; Cass., Sez.V, 28 ottobre 2011, n. 44126) e che quando ciò si verifica si è in presenza di un’ipotesi aggravata della fattispecie base (Cass.,Sez.V, 16 ottobre 2012, n. 44980).
La Corte ha evidenziato il perché Facebook è un mezzo legittimo ad integrare la fattispecie di reato, ossia: “Ai fini della integrazione del reato di diffamazione, anche a mezzo di internet, è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendetemente dalla indicazione nominativa” (Cass. Pen., sez. I, 22 gennaio 2014, n. 16712).
Il reato di diffamazione non richiede dolo specifico è sufficiente la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due. Con la sentenza in commento la Cassazione, è giunta, così, a sostenere che “anche la diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall’utilizzo per questo di una bacheca Facebook, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca Facebook non avrebbe senso) sia perché l’utilizzo di Facebook integra una delle modalità con le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione”.
Non è la prima e non sarà l’ultima delle pronunce della Cassazione riguardante Facebook, con la pronuncia del 12 settembre 2014 i giudici della Prima Sezione della Corte di Cassazione avevano già affermato che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 660 c.p. (molestie o disturbo alle persone), va considerato luogo aperto al pubblico la piattaforma sociale Facebook, quale luogo “virtuale” aperto all’accesso di chiunque utilizzi la rete. La Corte, chiaramente, ha ritenuto “innegabile che la piattaforma sociale Facebook (disponibile in oltre 70 lingue, che già nel 2008 contava più di 100 milioni di utenti) rappresenti una sorta di piazza immateriale che consente un numero indeterminato di accessi e visioni, rese possibili da una evoluzione scientifica che il Legislatore non era arrivato ad immaginare”.
Secondo i giudici, quindi, l’estensione è doverosa a fronte dell’innovazione che la comunità sociale ha subito, non si può parlare ormai soltanto di “comunicazione telefonica” per l’era in cui viviamo non si può non considerare il valore che rappresenta la comunicazione telematica.
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