Le dibattute questioni che ruotano intorno al mondo accademico ritornano protagoniste con il nuovo rapporto 2015 elaborato dalla Fondazione Res – Ricerca su Economia e Società – che mette in luce le Università del Nord e del Sud.
Nuovi i dati, vecchio il divario, che non accenna a diminuire. Il primo dato preoccupante, al quale viene imputata la tendenza negativa di cui in prima persona facciamo parte, non solo come spettatori ma come attori veri e propri, riguarda gli investimenti: la nostra penisola investe 4 volte in meno rispetto alla Germania.
Ma vediamo da vicino i numeri: sono circa 7 miliardi di euro la somma totale di denaro che ogni anno l’Italia spende per lo sviluppo degli studi superiori, a fronte del quadruplo, pari a circa 26 miliardi, che in terra teutonica destinano al medesimo comparto. Si tratta anche di una delle conseguenze del ribasso portato avanti dai governi italiani succedutisi negli ultimi sette anni: infatti, a partire dal 2008 fino all’anno corrente, all’insegna del necessario risparmio culminato con la spending review, la quota di denaro pubblico da investire nella formazione universitaria ha subito una contrazione pari al 21 per cento, mentre il resto dei Paesi membri ha agito in modo diametralmente opposto, in particolare la Germania, dove nel medesimo periodo di riferimento il settore è stato caratterizzato da un aumento degli investimenti, aumento che ha addirittura sfiorato la quota del 23 per cento.
Colpa della crisi economica? Il report precisa che “anche i Paesi mediterranei più colpiti dalla crisi hanno ridotto molto meno il proprio investimento sull’istruzione superiore. In Italia la riduzione della spesa e del personale universitario è stata molto maggiore che negli altri comparti dell’intervento pubblico: tra il 2008 e il 2013 i docenti universitari si riducono del 15% circa, il totale del pubblico impiego del 4%”.
Dati che fanno apparire lontano quel sospiro di sollievo tanto agognato e quella ventata di possibilità alla cui ricerca i nostri neo-laureati si alzano un giorno sì e l’altro anche. Anche da questo punto di vista, ponendo l’attenzione sul numero di giovani in possesso di una laurea, la cui età oscilla tra i 30 e i 34 anni, il Belpaese si distacca dalle tendenze riscontrabili nel resto d’Europa, soprattutto di fronte all’obiettivo posto di avere il 40 per cento di giovani laureati entro il 2020. Eppure fino al 2014 la percentuale italiana non raggiungeva il 24 per cento, così collocandosi al 28esimo posto nella classifica europea; motivo per cui, alla luce dei recenti andamenti annuali, il goal fissato a livello nazionale mira a raggiungere un timido 27 per cento entro il 2020.
Un sistema asfittico, che dovrebbe trarre nuova linfa dai nuovi iscritti, ma che in un circolo vizioso non fa altro che causarne la fuga altrove, insieme a coloro che un titolo di studi l’hanno ottenuto già. Ed ecco che ritorna prepotente il fantasma della fuga dei cervelli. Ultimo ingrediente, per rendere più saporita la minestra, è la mancanza di investimenti cospicui in grado di risanare, anche se solo temporaneamente, in attesa di nuove proficue iniziative, il mondo accademico meridionale e, in tal modo, colmare le fratture, più o meno profonde, tra i vari atenei.
Per farvi un’idea sul funzionamento dell’apparato universitario in Germania e individuarne a colpo d’occhio i tratti distintivi fondamentali, date un’occhiata qui.