David, lo stagista ONU che viveva in tenda, ha rassegnato le sue dimissioni

Da fine luglio David Hyde, 22 anni originario della Nuova Zelanda, ha vissuto in strada, dentro una tenda. Non lo ha fatto perché costretto al vagabondaggio, tanto meno per dare una svolta minimalista alla sua vita; lo ha fatto perché non poteva permettersi un’abitazione decente e un tetto sotto cui ripararsi. Eppure David Hyde non è uno scansafatiche, tutt’altro: ha conseguito una laurea in relazioni internazionali ed è riuscito ad ottenere uno stage presso il Palazzo delle Nazioni dell’ONU.

Ogni mattina, per un mese e mezzo, il giovane neozelandese si è svegliato nella sua tenda e dopo aver preparato il fornelletto a gas e sistemato lo zaino si è recato, di tutto punto, al prestigioso Palazzo delle Nazioni Unite di Ginevra. La storia di David ha fatto il giro del mondo, tutti i giornali ne hanno voluto parlare, trattandosi di un argomento tanto attuale quanto amaro. Al giorno d’oggi, infatti, i Paesi che finanziano e retribuiscono gli stage sono come un’oasi nel deserto e le aziende, piccole o grandi che siano, fanno leva sul concetto, vantaggioso solo per loro, del privilegio che esse concedono ai neo laureati inserendoli presso i loro uffici.

David è soltanto uno dei tanti stagisti che ogni mese arrivano a Ginevra a riempire gli uffici delle Nazioni Unite e che però non ha abbastanza soldi per permettersi una casa vera. La sua storia, raccontata dal giornale ginevrino Tribune de Genève, è simile, del resto, a quella di molti altri giovani come lui, ingannati dal prestigio dell’ente che li ospita e abbandonati economicamente, lasciando interamente alle famiglie l’onere fiscale.

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David e la sua famiglia non si sarebbero mai aspettati una situazione del genere, anzi, una volta certi dell’ammissione allo stage presso un’istituzione prestigiosa come l’ONU, avevano incoraggiato il ragazzo a far le valigie e a trasferirsi in Europa. Giunto a Ginevra il ragazzo si è presto reso conto di quanto il tenore della città svizzera fosse al di fuori delle sue possibilità, prendendo così l’ardua e coraggiosa scelta di vivere in una tenda.

Pochi giorni fa è arrivata la notizia che magari ci si aspettava, ma che non avremmo voluto leggere: spossato dalle spese, David ha infatti deciso di porre fine, con largo anticipo, al suo stage della durata complessiva di sei mesi. Come se non bastasse, il giovane non otterrà nemmeno il certificato necessario per poter far valere il suo stage nel proprio curriculum.

Fondamentali per entrare nel mondo del lavoro, spesso e volentieri gli stage non offrono alcun tipo di remunerazione, nemmeno l’abbonamento dell’autobus, i buoni pasto o le cure mediche. Le spese ricadono interamente sulle famiglie dei giovani lavoratori, o nel migliore dei casi vengono coperte da borse di studio, se i ragazzi sono ancora all’università.

Una pratica criticata, ma diventata ormai il trampolino di lancio per giovani laureati e, ancor più importante, manodopera gratuita per chi ne fa uso. Siamo davvero sicuri che a trarne vantaggio siano davvero i ragazzi e non i manager?

Il problema è che, coi tempi che corrono, chi se la sente di dire no ad uno stage di sei mesi al Palazzo delle Nazioni Unite? Chi vi avrebbe rinunciato dopo anni dietro ai libri? La gratificazione personale è una gioia per i neolaureati, ma la retribuzione o quanto meno un minimo riconoscimento economico lo è di più. Se ci si lascia scappare un’occasione del genere si è folli, ma se la si appoggia si finisce in tenda come David. Troppi giovani si ritrovano nella schiavitù del tirocinio solo perché “fa curriculum”, ma siamo sicuri che a qualcuno importi davvero il nostro curriculum? Dalle indagini sul lavoro parrebbe di no, ma c’è ancora chi vuol crederci, a costo di vivere in precarietà, e giusto o sbagliato che sia, è bene apprezzare gli sforzi di tanti ragazzi come David, anche se con l’amaro in bocca.

Marika Marzà

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Marika Marzà

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