Feltrinelli, mercoledì 4 aprile. Le fotografie della mostra “LA CITTÀ RIFLESSA” (aperta al pubblico fino al 26 di Aprile).
A guardarle ti domandi se non si tratta di foto denuncia di degrado urbano. Strade e mattoni sbrecciati, palazzoni e condomini popolari dalle facciate abbandonate e fatiscenti, asfalto imbrattato di sporcizia e volantini dell’Auchan gettati. Zone industriali e periferiche apparentemente del tutto prive di fascino. Che sia uno di quei reportage sul disincanto di un mondo moderno dove natura e bellezza sono state definitivamente deturpate da un’imperante bruttura? No. E’ solo l’universo di Salvatore Tudisco, la City vista con l’occhio clinico dell’architetto e professore di storia dell’arte. Come nello specchio di Alice, il suo è un doppio modo di VEDERE, una dimensione parallela dove nulla è quello che sembra, o almeno non solo. Squarci di rozza quotidianità che, di tanto in tanto, sussurrano ad ognuno di noi storie, pensieri… sogni ad occhi aperti.
Di primo acchito, c’è l’occhiata gettata lì da un passante distratto e desensibilizzato, cieco al linguaggio della metropoli, poi, lo sguardo che penetra l’involucro della superficie scialba delle cose, scruta, indaga e percepisce… qualcosa. Gli chiediamo che cosa:«Io osservo. Non voglio esprimere delle conclusioni mie, mi limito ad osservare e riportare. Poi, certo, riporto secondo il mio personale modo di vedere spazio e prospettiva, il mio concetto di urbanistica e la mia visione architettonica, mi ci metto, insomma, io stesso…»
E chi è questo “Io”?
«Boh! E chi lo sa! (ride,ndr)»
Da cosa nasce questo studio dei riflessi di un mondo capovolto?
«Questa mostra è frutto di un lavoro nato già da parecchi anni, una ricerca del 2000 sulle luci che danno luogo ad un’altra realtà. Ho preso spunto da Calvino e le sue “Città invisibili”, in particolare Valdrada, la bellissima città sul lago…»
(“Gli antichi costruirono Valdrada sulle rive d’un lago con case tutte una sopra l’altra e vie alte che affacciano sull’acqua i parapetti a balaustra. Così il viaggiatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta… lo specchio ora accresce il valore delle cose, ora lo nega… Le due Valdrade vivono l’una per l’altra, guardandosi negli occhi di continuo, ma non si amano”. Italo Calvino)
Come mai ha scelto proprio Catania?
«In realtà avevo proposto tre o quattro temi alla Feltrinelli, sono stati loro a scegliere. Catania, così come Berlino e Taormina, son tutti luoghi cui mi sento legato. Inoltre Catania è una miscellanea di elementi, una molteplicità contenitrice di storia, ma anche di profondo degrado.»
La città del cuore?
«A parte Taormina, mia patria natia, Roma. Senza dubbio. La città per eccellenza. La città e basta. Pensi che Jung non ci fu mai, ne era più che intimorito. Nello scendere da Genova a Tripoli, Roma era tappa obbligata e lui volle evitarla ad ogni costo. Non credeva di poter reggere il peso di tanta storia.»
I soggetti delle sue foto sono piuttosto singolari. Una vecchia vespa da sfasciacarrozze di fronte ad una tugurio abbandonato… Come li sceglie?
«Ah, ma io non scelgo proprio niente! Sono loro a scegliere me! Come disse Walter Franklin, sono un ignorante completo io! Quanto alla vespa, mi dà sapore di cinema, di vacanze romane, di abbandono… I silos del porto catanese li ho selezionati per i colori essenziali, giallo rosso e blu. Una scelta che si rifà moltissimo a Mondrian, in effetti, come “mondriano” è un po’ tutto il mio pensiero artistico. “Silos”, poi, è una parola particolare, “solis” al contrario. Parola che scelsi per la mia primissima mostra nel 2006.»
Prossimi progetti in cantiere?
«Il 28 aprile sarò a Taormina con una mostra dal titolo “Blu”. Ci saranno miei lavori in pietre, lamiere e altro. Tutto ispirato dal mare dopo una mareggiata. Il mare è un po’ la mia fucina. Spesso è passeggiando per le spiaggia sotto casa mia che trovo quei soggetti/oggetti per i miei lavori che mi colpiscono e puntando il dito dico loro “tu vieni con me”, o forse sono io che vado con loro, chissà. C’è un pezzo di legno che ho visto nascere, lì. Non ho avuto il cuore di reciderlo così l’ho osservato crescere e invecchiare, limitandomi a fotografarlo. Ho visto qualcosa anche in lui. Così come ho visto qualcosa in un detrito giunto a riva. Ho immaginato venisse da lontano… ho chiesto ad un amico, un architetto turco, di dipingerci la sua Istanbul, e a chi chiede perplesso cosa sia, rispondo “è un oblò che si è portato la sua città fin qui…” e loro mi guardano stupiti e a bocca aperta, mentre io, ridendo sotto ai baffi, penso che era solo lo sportello di una lavatrice. Non sono io a raccontare gli oggetti, sono loro a raccontarmi la loro storia.»
Lei è capace di ascoltarli però.
«Per mia fortuna, si.»