Nuovi contributi dell’Università di Catania per l’emergenza sanitaria. Un team multidisciplinare sta lavorando ad un modello epidemico compartimentale che permette di stimare la frazione di soggetti positivi ancora non identificati sulla base del numero di decessi, mentre un altro sta sviluppando applicazione “sentinella” da distribuire alla popolazione.
“Nonostante i numerosi risultati prodotti giornalmente dalla ricerca su COVID-19, allo stato attuale le informazioni sull’epidemiologia e le caratteristiche cliniche della polmonite causata da SARS-COV-2 sono in rapida acquisizione, ma ancora insufficienti e questo limita l’efficacia delle strategie di prevenzione e delle pratiche di gestione dei casi” – spiega la prof.ssa Antonella Agodi, ordinario di Igiene generale e applicata e direttore del Dipartimento di Scienze Mediche, Chirurgiche e Tecnologie avanzate “Ingrassia” dell’Università di Catania –. Uno dei principali quesiti, infatti, riguarda il numero reale di soggetti positivi, ma che, per varie ragioni, non sono stati sottoposti al test. Se all’inizio dell’epidemia sono stati testati tutti i possibili contatti dei casi accertati, nel corso del tempo tale strategia è stata modificata in un campionamento dei soli soggetti sintomatici e che hanno richiesto ospedalizzazione. Per questo motivo, il numero riportato di contagiati ed il corrispondente trend temporale potrebbero essere affetti da differenze di campionamento”.
Sulla base di queste considerazioni, il team dell’Università degli Studi di Catania – composto da Antonella Agodi, Sebastiano Battiato, Martina Barchitta e Andrea Maugeri – sta lavorando a un modello epidemico compartimentale che permette di stimare la frazione di soggetti positivi ancora non identificati sulla base del numero di decessi. “Per ovvie ragioni questo dato è meno affetto dalle differenze di campionamento e da eventuali bias di informazione dovuti ad una mancata segnalazione“, spiegano i ricercatori.
Il team ha già validato il modello sui dati cinesi prima del lockdown di Wuhan e della provincia di Hubei del 23 gennaio, dimostrando che circa il 90% dei contagi da SARS-COV-2 non erano stati identificati. Secondo i ricercatori, se assumiamo che il numero di casi riportati sia più basso dei casi reali, allora il tasso di letalità in Italia – attualmente stimato intorno al 12.9% – potrebbe essere considerevolmente più basso. Tali risultati sono al momento oggetto di peer-review da parte di riviste scientifiche internazionali. “Per analizzare i dati siciliani – sottolineano i ricercatori – è stato necessario integrare il modello, considerando anche il numero di ospedalizzazioni in terapia intensiva. Tali analisi, hanno permesso di stimare che la percentuale di casi non identificati nella nostra regione è inferiore rispetto al dato nazionale”.
Il team d’Ateneo ha valutato l’efficacia degli interventi di contenimento imposti dal Dpcm del 9 marzo e resi più stringenti dal Dpcm del 22 Marzo. L’estensione del modello dopo il lockdown nazionale, infatti, ha dimostrato una significativa riduzione della trasmissione del virus sul territorio regionale, scongiurando uno scenario drammatico in assenza di misure di contenimento.