
Caso Giulia Cecchettin. Ergastolo a Filippo Turetta: una sentenza che segna l’Italia e il suo futuro. La Corte d’assise d’appello di Venezia ha dichiarato inammissibili i ricorsi presentati dalla Procura e dalla difesa di Filippo Turetta, confermando l’ergastolo per l’omicidio di Giulia Cecchettin.
Una decisione secca, inequivocabile, che chiude un processo ma non la ferita aperta nel Paese. La condanna, ora confermata, diverrà definitiva ed esecutiva una volta decorsi i termini per il ricorso in Cassazione, ultimo passaggio possibile nella macchina giudiziaria.
Nell’aula bunker di Mestre, la prima e unica udienza del secondo grado è durata il tempo necessario alla Corte per prendere atto di una situazione mai vista: l’imputato e la Procura hanno rinunciato entrambi all’appello. “Nessuno tra i presenti ha mai celebrato un processo così”, ha osservato il presidente Michele Medici. Un processo silenzioso, ma carico di segnali. Un processo che, pur privo dei suoi protagonisti, parla forte all’intero Paese.
La conferma dell’ergastolo, con l’aggravante della premeditazione, non è solo una pronuncia tecnica: è un messaggio chiaro. Parla di un delitto che non può essere ridotto a tragedia privata, ma che si inserisce dentro un fenomeno sociale che l’Italia continua a non voler guardare fino in fondo.
Secondo l’avvocato Nicodemo Gentile, legale della sorella di Giulia, la Corte ha implicitamente riconosciuto un movente di genere: la volontà di punire una donna “insubordinata”, libera, autonoma. Un tratto ricorrente nei femminicidi, dice il legale, spesso figli di un “analfabetismo emotivo” che attraversa uomini incapaci di accettare la fine di una relazione.
È un’apertura che potrebbe influenzare altri processi, spingendo la magistratura a leggere questi delitti non come esplosioni improvvise, ma come manifestazioni di una cultura malata.
Se Turetta non era presente, lo erano invece gli avvocati della famiglia Cecchettin. Una famiglia che, da quel giorno di novembre, vive sospesa tra l’assenza di Giulia e la necessità di dare al suo nome un significato più grande del tragico fatto di cronaca.
Gino Cecchettin non ha mai scelto il ruolo che oggi ricopre, ma se l’è preso con una forza che ha commosso l’Italia. Quando è intervenuto davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui femminicidi, ha portato una verità semplice e disarmante:
“Non sono qui per chiedere più punizioni o leggi più dure, ma per parlare di ciò che può arrivare prima: la prevenzione e quindi l’educazione. L’educazione affettiva non è un pericolo, è una protezione. Aggiunge consapevolezza, rispetto, umanità.”
Parole che non suonano come uno sfogo, ma come un appello lucido a tutto il Paese. E che oggi, alla luce della sentenza, assumono un valore ancora più forte: Giulia non c’è più, ma la sua voce continua a vibrare attraverso quella di suo padre e della sorella Elena.
Uno dei temi centrali sollevati da Cecchettin è l’assenza di educazione all’affettività nelle scuole. Un vuoto gravissimo. È qui, infatti, che si formano, o si deformano le capacità emotive dei giovani, la gestione delle relazioni, dei conflitti, della fine di un amore.
“Quando la scuola tace – ricorda Gino Cecchettin – parlano i social, parlano i modelli tossici, parlano i silenzi degli adulti.”
È un avvertimento, ma anche una diagnosi. La rete, amplificatore di gelosie, insicurezze, narcisismi , spesso sostituisce la guida e la responsabilità degli adulti. E così le relazioni si trasformano in territori ostili, in cui nascono ossessioni, imposizioni, ricatti emotivi.
Il femminicidio, allora, non appare più come un improvviso raptus, ma come il tragico epilogo di un percorso che poteva essere interrotto, se solo qualcuno avesse saputo leggere i segnali.
La Fondazione Giulia Cecchettin sta lavorando per rafforzare la rete di supporto alle donne, collaborando anche con associazioni come Differenza Donna, con cui è nato un nuovo centro antiviolenza a Roma.
Ma il quadro nazionale resta drammatico. I centri sono pochi, sovraccarichi, costretti a rispondere a una domanda che, secondo gli ultimi dati Stato-Regioni, richiederebbe una struttura ogni dieci rispetto a quelle oggi esistenti.
Molte donne non trovano risposta perché i centri sono saturi, perché mancano risorse, perché manca una reale volontà politica di investire nella prevenzione.
Ed è proprio qui che la voce della famiglia Cecchettin diventa richiesta esplicita: sostenere economicamente queste realtà, aumentare il numero delle strutture, garantire presenza, continuità, protezione. Non solo sulla carta.
Il caso Cecchettin resterà nella memoria collettiva. Non solo per la brutalità del delitto, ma perché ha messo a nudo ciò che spesso fingiamo di non vedere. La fragilità delle relazioni, la cultura del possesso, l’assenza di strumenti emotivi, la solitudine dei giovani, il fallimento di certe narrazioni familiari e sociali.
Oggi dovremmo tutti fermarci e chiederci: quanti altri nomi serviranno prima che questo Paese capisca che la violenza si combatte molto prima delle aule di tribunale?
Che la differenza la fanno le scuole, le famiglie, le comunità, le istituzioni che sanno parlare ai ragazzi?
Che la cultura del rispetto non nasce da un codice penale, ma da un’educazione quotidiana?
Un monito che non possiamo ignorare. La condanna di Filippo Turetta diverrà definitiva ed esecutiva quando termineranno i tempi per ricorrere in Cassazione. Ma ciò che deve diventare definitivo, nella coscienza del Paese, è qualcos’altro: la consapevolezza che viviamo in una società in cui i valori non possono più essere dati per scontati. La storia di Giulia ci obbliga a guardare negli occhi una verità scomoda:
quando una società smette di educare, quando smette di ascoltare, quando smette di prendersi cura, allora lascia spazio alla violenza.
Giulia era una giovane donna piena di vita, speranza e amore. Il suo tragico destino non può essere vanificato; la sua luce continuerà a illuminare il cammino di coloro che combattono contro la violenza di genere. E allora, davanti a questa sentenza, davanti al volto di una ragazza di 22 anni che sognava la vita, la domanda è una sola:
vogliamo continuare a vivere in un Paese che interviene solo dopo il male, o vogliamo costruire finalmente una società che previene, educa e protegge?
Se ti va, scrivi cosa ne pensi.
Non per giudicare, non per dividere, ma per condividere una riflessione che ci riguarda tutti. Le parole, quando sono pensate e autentiche, possono diventare un modo per sentirci meno soli e per dare valore a ciò che la nostra società rischia di dimenticare: la dignità, il rispetto, la responsabilità reciproca.
A volte il primo passo verso il cambiamento è proprio questo: iniziare a parlarne, insieme. La risposta, oggi più che mai, riguarda tutti noi.
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