Nelle aule della Camera dei Deputati è iniziato l’esame di una proposta di legge avanzata dalla Lega che, apparentemente, punta a cambiare il nome di una delle figure centrali della scuola italiana: il docente di sostegno diventerebbe il docente per l’inclusione. Ma dietro questa modifica linguistica si nasconde qualcosa di ben più profondo.
L’obiettivo dichiarato è valorizzare il ruolo pedagogico e formativo di questo insegnante, considerandolo come punto di riferimento per tutta la classe, non solo per l’alunno con disabilità. Ma la realtà è più complessa: il rischio è che, invece di rafforzare il senso di comunità educativa, si finisca per caricare un singolo docente di un compito che dovrebbe appartenere a tutti.
Un cambio di nome
A prima vista, potrebbe sembrare un semplice aggiornamento terminologico. Ma non è così. La legge 104 del 1992 parla già di “docenti specializzati per le attività di sostegno”. Quindi, il termine “docente di sostegno” non è una dicitura ufficiale, ma una prassi consolidata.
Introdurre la nuova denominazione, “docente per l’inclusione”, potrebbe creare confusione normativa, sovrapponendo due espressioni diverse in assenza di un coordinamento legislativo chiaro. Inoltre, si rischia di trasmettere un messaggio culturale pericoloso: che l’inclusione sia una materia per specialisti, e non una responsabilità condivisa da tutta la comunità scolastica.
Un pericolo culturale: l’inclusione diventa un affare di pochi
L‘inclusione scolastica, per come è stata pensata in Italia sin dagli anni ’70, è un principio fondato sulla corresponsabilità di tutti i docenti. Ogni insegnante dovrebbe lavorare in sinergia per rispondere ai bisogni di ciascun alunno, con o senza disabilità. La proposta della Lega rischia di smentire questo principio, affidando formalmente a un solo docente il compito dell’inclusione.
Il risultato? Una delega implicita, che finisce per isolare ancora di più gli alunni con disabilità e rafforzare la percezione che siano “questione a parte”. È un ritorno mascherato a un’idea di scuola dove l’inclusione è un compito aggiuntivo, e non un tratto distintivo del sistema educativo.
E sul piano pratico?
Uno degli aspetti più critici della proposta è il suo impatto sull’organizzazione scolastica. Il nuovo “docente per l’inclusione” dovrebbe occuparsi non solo degli alunni con disabilità certificata, ma anche di quelli con Bisogni Educativi Speciali (BES). Un’idea che, di per sé, potrebbe sembrare lodevole.
Il problema? Nessun aumento di organico e nessun investimento previsto. L’articolo 2 della proposta ribadisce l’invarianza finanziaria, cioè il fatto che non ci saranno fondi in più. Questo significa che i docenti di sostegno verrebbero caricati di nuovi compiti, ma senza un corrispondente supporto.
Nel concreto: più studenti da seguire, meno tempo da dedicare a ciascuno, soprattutto nelle classi dove ci sono più casi complessi. Il rischio è che l’intervento educativo diventi meno personalizzato, e quindi meno efficace. Una proposta che ignora i veri problemi del sostegno in Italia.
Oggi in Italia ci sono oltre 122.000 docenti di sostegno precari, molti dei quali non hanno la specializzazione prevista dalla legge. In particolare nel Nord, dove la carenza è più grave, capita spesso che un alunno con disabilità venga affidato a un docente improvvisato, scelto a pochi giorni dall’inizio della scuola.
Il sostegno è coperto per larga parte da contratti a tempo determinato, sull’organico di fatto, che impediscono qualsiasi forma di stabilizzazione. Questa discontinuità danneggia soprattutto gli alunni, che spesso cambiano insegnante ogni anno.











