Questo è il racconto di un male la cui origine si perde nella notte dei tempi: la violenza di genere è un morbo da sempre radicato nella società, per lungo tempo, troppo tempo, ignorato, taciuto o minimizzato. Un comportamento oppressivo che ha attraversato le epoche, manifestandosi sotto forme più o meno percepibili, ma sempre presente. In passato, molte donne hanno vissuto in silenzio, taciuto la propria rabbia, occultato il proprio dolore, senza che la società riconoscesse la gravità del problema, nascondendo le ferite sotto il velo dell’omertà e della normalizzazione.
Solo negli ultimi decenni, grazie a una crescente sensibilità sociale, all’impegno delle donne e all’attivismo, la violenza di genere ha iniziato ad essere riconosciuta per ciò che effettivamente è: un drammatico fenomeno sistemico che colpisce le donne in tutte le sue forme. La sua manifestazione più estrema, il femminicidio – l’uccisione della donna proprio perché donna – acquisisce finalmente ai nostri giorni un proprio nome e una consapevolezza, diventando il fulcro della lotta di chi non ha più intenzione di tacere. Oggi, una nuova prima volta per le donne nella lunga storia di conquista dei propri diritti, si comincia ad ascoltare davvero la loro voce, un passo fondamentale per ricostruire una società che riconosca pienamente i diritti e la dignità femminile.
Si è cercato di analizzare il fenomeno da un punto di vista spesso filtrato o dimenticato dalle fonti, quello delle dirette interessate, donne di varie età ed occupazione, hanno offerto con le loro parole un profondo spaccato di realtà. Le parole delle donne, se ascoltate, possono essere il motore di un cambiamento profondo, una testimonianza di una nuova consapevolezza su una realtà che non può più essere ignorata. Noi le abbiamo intervistate e ascoltate.
La prima domanda a cui hanno risposto le coraggiose donne che hanno qui regalato la propria voce riguardava la conoscenza sulle “moderne” definizioni del fenomeno. Ciò che è emerso dalle loro risposte è che la consapevolezza sulla violenza di genere, seppur in crescita, non è ancora equamente distribuita. Le interviste rivelano una comprensione dell’argomento dettata più dalle esperienze di vita proprie o di altre donne che da un’approfondita informazione e, benché le risposte siano state diverse tra loro, tutte sono segnate da una sorta di incompiutezza.
A., una giovane mamma di 23 anni, ammette ad esempio di non conoscere il reale significato dei termini che accompagnano questi fenomeni, pur percependoli come qualcosa di negativo e violento, forse a causa di una comunicazione superficiale che li minimizza. Anche V., mamma casalinga di 36 anni, riconosce il femminicidio solo attraverso le notizie che riportano la morte di molte donne, ma non ha mai ricevuto un’informazione chiara e accessibile al riguardo.
Allo stesso modo, donne di età più avanzata conoscono il fenomeno solo grazie alla propria esperienza diretta, professionale o in ambito di volontariato, che le ha portate ad esservi a contatto ed assistere attivamente le vittime. Tra le intervistate, solo quelle in possesso di titoli di studio e formazioni specifiche si sono distinte per la propria consapevolezza, specificando come questa derivi dal proprio percorso; un dato che evidenzia come sia tale vuoto comunicativo di fondo ad accomunarle tutte. Un vuoto che non riguarda solo le vittime dirette ma l’intera società; ed è urgente che ciascuna, a prescindere dal livello di istruzione, possa acquisire gli strumenti per difendersi e lottare contro questa piaga sociale.
Le esperienze raccontate dalle intervistate evidenziano un legame profondo tra la percezione della propria libertà nelle relazioni personali e il supporto o meglio, la sua mancanza, offerto dalle istituzioni. Le donne più giovani, seppur figlie di un’epoca maggiormente sensibile, descrivono un senso di insicurezza che si manifesta in ambiti cruciali della loro vita. In particolare, i rapporti affettivi appaiono come una sorta di “lotteria emotiva”. “Non sai mai se la persona che hai davanti si rivelerà gelosa e possessiva. A volte sembra tutto perfetto, poi ti ritrovi in una situazione da cui non sai uscire”, racconta una studentessa universitaria.
Nel mondo del lavoro l’insicurezza si amplifica: la percezione di non essere prese sul serio, di essere giudicate meno competenti dei colleghi uomini o la sensazione di doversi sempre difendere da commenti fuori luogo, sono esperienze comuni. In contrasto, le donne più adulte mostrano una prospettiva diversa. Per loro, l’esperienza di vita diventa una risorsa per affrontare con maggiore consapevolezza la realtà e riconoscere, in modo più tempestivo, segnali di potenziale pericolo.
Due visioni apparentemente distanti ma profondamente connesse dal senso di solitudine e frustrazione per un sistema che, pur riconoscendo la gravità dei fatti che continuano costantemente a verificarsi, sembra solo provarci senza impegnarsi davvero. Tutte riconoscono la presenza di strumenti giuridici e sociali per combattere la violenza, ma tutte denunciano una lacuna sistemica: la prevenzione. “Intervenire quando è già troppo tardi per salvare una vita umana o una mente irrimediabilmente traumatizzata non è abbastanza.” sostiene una delle più adulte criticando come troppe volte le richieste di aiuto vengano minimizzate e gli aiuti attivati solo nel momento in cui atti più gravi si sono già verificati. Qualcuna attribuisce la colpa anche a chi è vicino alle vittime, reo di ignorare dettagli e denunce silenziose che potrebbero fare la differenza: “Ci dicono di aprirci, ma poi? È come buttarsi nel vuoto senza paracadute.”
Le donne intervistate, pur con esperienze diverse, hanno un desiderio comune: essere rispettate e trattate con eguaglianza. Non basta riconoscere il fenomeno della violenza, non basta comprenderne la gravità. La vera sfida è creare una società consapevole, che sappia prevenire ed educare al rispetto. Non più un’esperienza individuale ma un reale impegno collettivo, una coscienza unica che sappia urlare senza timore: “DI GENERE SI MUORE”.
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