In occasione della Giornata contro l’eliminazione della violenza maschile contro le donne, abbiamo intervistato Anna Agosta, presidente del centro antiviolenza Thamaia (rete D.I.R.E) e referente della rete della città metropolitana di Catania. In particolare, le abbiamo chiesto di fare un punto sulla situazione e di come come femminicidi come quello di Giulia Cecchettin o Giulia Tramontano, così esposti mediaticamente, abbiano influito sulla società. I numeri sono, però, ancora alti: lo dimostrano gli ultimi dati del 2024.
A un anno di distanza, il femminicidio di Giulia Cecchettin
A cosa è servito il femminicidio di Giulia Cecchettin? Un femminicidio che ha avuto un grande impatto mediatico può realmente cambiare le cose oppure no? Ricordiamo tutti la mobilitazione che fin da subito c’è stata nelle piazze, sui social, dove lo slogan principale era “se domani tocca a me voglio essere l’ultima”, ma Giulia è realmente stata l’ultima?
“Sicuramente il femminicidio di Giulia Cecchettin ha avuto un impatto mediatico molto forte. Si è registrata, soprattutto negli ultimi mesi del 2023, una tendenza in aumento degli accessi ai centri antiviolenza. C’è stata anche un’attivazione politica, un’attivazione sociale, della stampa, degli addetti ai lavori che hanno portato un’attenzione verso alcuni aspetti della violenza maschile contro le donne: origine culturale, il sistema patriarcale, la definizione di patriarcato; temi che noi dei centri antiviolenza portiamo da sempre.”
Nello specifico la presidente Agosta ricorda le parole della sorella di Giulia, Elena, che sin dal primo momento sui suoi social o tramite la televisione ha divulgato il concetto di un patriarcato intrinseco nella nostra cultura ancora oggi, parlando soprattutto dei giovani che sembrerebbero essere meno colpevoli o portatori di questa concezione perché ‘bravi ragazzi’.
“Il fatto che l’abbia detto con parole così chiare la sorella di una donna uccisa dal fidanzato ha avuto un impatto molto molto forte.”
A un anno di distanza, i numeri del 2024
I dati del 2024 parlano chiaro: il fenomeno non è sicuramente estinto e nemmeno risolto. Purtroppo i numeri sono ancora molto alti e ciò significa che il lavoro da fare è tanto. A tal proposito, Anna Agosta sostiene: ”Io rilevo una tendenza a una maggiore emersione, sicuramente molte più donne stanno chiedendo aiuto, anche ai centri antiviolenza, ma non dipende solo dalla rilevanza mediatica che possono avere alcuni casi piuttosto che altri.”
Inoltre: “Il fenomeno sta emergendo di più, con questo non voglio dire che ci sono più donne che subiscono violenza, sebbene ci sia un aumento delle richieste di aiuto ai centri antiviolenza, molte donne non denunciano, molte donne non lo dicono a nessuno. Nel tema della violenza maschile sulle donne c’è un sommerso, perché se è vero che una donna su tre in Italia e nel mondo subisce una forma di violenza, è vero anche che circa il 60% delle donne, dati Istat che lo dicono, non lo racconta a nessuno.”
Tante le campagne di sensibilizzazione che stanno dando numerosi frutti: “C’è anche un’attività che i centri antiviolenza fanno sui territori, ma non solo. Quasi tutti i centri hanno anche pagine social attraverso cui fanno campagne di sensibilizzazione, lavoriamo tantissimo anche nelle scuole, che fa arrivare un’informazione alle ragazze giovanissime. Il movimento femminista che ha organizzato diverse manifestazioni che portano poi a riflettere”.
Riguardo i loro numeri e i dati raccolti dal centro Antiviolenza Thamaia quest’anno, Agosta riporta: “I numeri sono in crescita. Questo lo imputiamo anche e soprattutto all’aumento delle opere di apertura. Abbiamo appurato in diverse circostanze, che quando potenziamo l’orario di apertura telefonica, che è la modalità di accesso al centro, i dati aumentano. Nel momento in cui abbiamo meno finanziamenti e dobbiamo abbassare il numero di ore di apertura telefonica i dati diminuiscono. Questo vuol dire che più garantiamo il servizio, più le donne hanno possibilità di chiedere aiuto.”
Come chiedere aiuto: le attività dei centri antiviolenza
Come si chiede aiuto al centro Antiviolenza Thamaia? “Per accedere al centro basta fare una telefonata negli orari previsti, risponde un’operatrice specializzata che accoglie la donna, fa una valutazione del rischio e poi fissa un appuntamento, si tratta di un vero e proprio colloquio. Se la donna lo vorrà fisserà un appuntamento al cav dove comincerà un percorso che ha l’obiettivo di ritrovare autonomia e programmare una vita libera dalla violenza.“
In che modo una donna viene aiutata? “I centri antiviolenza sono luoghi di accoglienza di donne per le donne che garantiscono anonimato, riservatezza, gratuità alle donne che si rivolgono a noi. Sono gestiti da operatrici attiviste che hanno un’altissima specializzazione sul tema, che supportano le donne in un percorso di empowerment, di consapevolezza per uscire dalla situazione di violenza in cui si trovano e riprogrammare la loro vita in maniera alternativa alla violenza. Attraverso il centro la donna accede a tutta una serie di servizi: il supporto legale, l’orientamento al lavoro, il supporto attraverso la rete dei servizi, perché chiaramente una donna che si rivolge a un centro antiviolenza viene seguita costantemente anche rispetto al rischio che la donna subisce.”
Denunciare in sicurezza
Le donne che arrivano nei centri antiviolenza si trovano uno stato psicologico molto delicato e fragile e, proprio per questo, devono essere seguite costantemente da persone che possano comprendere il loro stato d’animo. “Non perché siano donne fragili – commenta Agosta –, ma perché sono donne infragilite dalla violenza e quindi mettersi in gioco e cominciare un percorso non è per niente facile, anzi.”
Denunciare è necessario e doveroso, per salvarsi. Superare una violenza è possibile, ma bisogna avere gli strumenti adatti e le persone giuste attorno a noi che ci aiutino a farlo. “Il momento in cui la donna chiede la separazione o fa la denuncia – racconta la presidente di Thamaia –, è un momento molto pericoloso, nel caso in cui la donna si trovi da sola, senza che sia stata attivata la rete di protezione sarebbe in grave pericolo. Molti fatti di cronaca, infatti, ci dicono che la donna prima di morire aveva magari denunciato o aveva presentato all’uomo la volontà di volersi separare. Donne invece seguite dei centri antiviolenza arrivano a denunciare quando sono già in sicurezza”.
“Chiaramente non diciamo le donne di non denunciare – precisa Agosta – bensì di farlo quando si è in sicurezza. Ci sono chiaramente casi di estrema pericolosità in cui la donna, se si sente in estremo pericolo di vita, deve chiaramente andare a denunciare. La cosa migliore è però denunciare quando si sente pronta, quando si è in sicurezza. Poiché molto spesso dopo la denuncia si è catapultate in un iter del quale non sono consapevoli, del quale non sono ben informate e tendono poi ritrattare, a minimizzare, tornare indietro proprio perché non sono supportate.
Proprio il tornare indietro, minimizzare, riprovarci è dovuto a molti fattori: il primo sicuramente riguarda il fatto che l’uomo che le maltratta è lo stesso uomo che loro hanno scelto, l’uomo con cui hanno fatto un progetto di vita, il padre dei loro figli, si tende a dare un’altra possibilità, a perdonare, ad assumersi la colpa. Il percorso è molto doloroso, è molto faticoso. Un altro fattore è la poca fiducia nei confronti delle istituzioni: molte donne accendono la TV e sentono dell’ennesimo femminicidio, in cui magari la donna aveva denunciato. Il tornare indietro è dunque uno dei più chiari indicatori di violenza.”
Il tornare indietro, però, secondo l’esperta, può ledere la credibilità della donna, perché dall’esterno si può pensare che una donna che prima ha denunciato e poi è ritornata insieme al suo carnefice abbia inventato tutto: non è così, è un processo psicologico del tutto normale per i soggetti fragili vittime di violenza.
Lo Stato: amico o nemico?
Lo Stato e le istituzioni dovrebbero essere i primi collaboratori dei centri antiviolenza, ma è così? Riguardo ai finanziamenti e gli aiuti da parte delle istituzioni Agosta ci parla di una realtà molto difficile, dove i centri, soprattutto al sud, sono lasciati soli: ”Ci sono degli stanziamenti per aiutare i centri antiviolenza, ma sono davvero irrisori. Almeno qui in Sicilia arrivano ai centri circa 30.000 € annui, che transitano dalla regione, ma sono fondi nazionali. Per un’organizzazione che ha numeri importanti come il nostro, circa 300 casi ogni anno e che fa un lavoro di prevenzione, di formazione, coordina la rete antiviolenza, fa sensibilizzazione, fa progetti sono davvero pochissimi.
Le differenze tra le varie regioni sono notevoli: “Diciamo che in Italia non c’è un sistema omogeneo, ci sono regioni invece che hanno delle previsioni di spesa specifici e quindi integrano questi fondi nazionali , in Sicilia questo non avviene.”
Come riescono a gestirsi? “Noi viviamo di progettazione indipendente. Dopo 25 anni il Comune di Catania ha messo il bando dei fondi destinati proprio alla gestione dei centri antiviolenza e dopo 25 anni siamo stati inseriti in questi fondi del distretto, della legge 328 del 2000. Non è detto permangano, perché molto probabilmente nella progettualità futura non verrà reinserito questo finanziamento e quindi non verranno stanziati questi fondi che noi ci siamo aggiudicate tramite un regolare bando di gara. Hanno sostenuto e supportato una parte delle nostre attività, ma chiaramente servirebbero molti più fondi per gestire un centro antiviolenza.”
“Noi viviamo – continua la presidente – tramite fondazioni private, bandi europei, nazionali, che però ci permettono di portare anche dei servizi aggiuntivi sul territorio, di potenziare le nostre attività nell’ambito anche dell’accoglienza delle donne, della prevenzione, della formazione, di attivare nuovi servizi, ad esempio per donne migranti o donne con disabilità, facendo così un lavoro a 360°.”
Si può prevenire la violenza?
La violenza di genere si può prevenire? Quali sono i campanelli d’allarme a cui prestare attenzione? I segnali iniziali, ci dice Anna Agosta, non sono così facili da comprendere: inizialmente ci sembra tutto normale, una semplicemente preoccupazione o qualche forma di gelosia sana, ma così non è. “La dinamica della violenza è una dinamica molto subdola, che non si manifesta immediatamente. Sicuramente un fidanzato o un compagno che può sembrare solo apparentemente geloso, perché ci hanno insegnato che la gelosia è sinonimo di amore, questo già potrebbe essere un campanello d’allarme.”
Inoltre, la presidente avverte: “Se ci comincia a limitare riguardo le scelte, le amicizie, le proprie relazioni; se poi diventa anche una forma di controllo anche subdola dicendoci ad esempio ‘ fammi sapere quando arrivi’, ‘ dove sei’, ‘ con chi sei’, ‘ mandami una foto’, ‘ condividiamo la password dei social’, ‘ non ti vestire così’. Già questo è un ulteriore indicatore ed è anche un’escalation, nel senso che inizia così per poi arrivare a forme di violenza psicologica, attraverso umiliazioni, atteggiamenti denigratori o svalutanti.
Come riconoscere i segnali? “Leggere la violenza fisica è chiaramente più semplice, la violenza sessuale anche. Queste forme di violenza psicologica e di controllo sono difficili da intercettare, soprattutto perché sono graduali e quindi magari più passa il tempo e più quell’atteggiamento diventa quasi normalizzato e disinnescare e avere una reazione è sempre più difficile.
“Quello che noi diciamo: al primo sentore che sta cambiando qualcosa, che ti senti limitata nella tua libertà di donna, di studentessa, di donna lavoratrice, nelle tue relazioni con gli altri, chiedi aiuto, anche solo fare una telefonata al centro antiviolenza, che non significa fare una denuncia, non vuol dire necessariamente mettere in moto qualcosa, vuol dire provare, confrontarsi con delle donne esperte che possono sostenerti e capire insieme se quello che stai subendo è una forma di violenza e come, in caso, porre rimedio”, conclude la presidente di Thamaia.