Titolacci è stato un laboratorio particolarmente interessante che ha avuto luogo durante questa edizione del Catania Book Festival. Condotto da Adriana Scamporrino, docente di lingua inglese, questo laboratorio si è concentrato sul tema delle traduzioni dei titoli di opere letterarie famose, sia italiane che straniere, evidenziando come spesso tali titoli vengano modificati in maniera significativa. Il nome “Titolacci”, volutamente ironico, anticipa il focus del laboratorio: analizzare e discutere le ragioni per cui molti titoli subiscono alterazioni profonde durante il processo di traduzione, talvolta per motivazioni di marketing o altre necessità editoriali, altre volte per difficoltà linguistiche e storiche.
Durante l’incontro sono stati presentati un’ampia gamma di esempi, dalle grandi opere della letteratura russa come Delitto e Castigo di Fëdor Dostoevskij, fino ai più celebri romanzi contemporanei, come Shining di Stephen King. Questi casi hanno illustrato chiaramente le diverse dinamiche alla base delle variazioni nei titoli, e sono emersi tre motivi principali dietro a tali scelte.
Il primo e più evidente motivo riguarda la necessità commerciale, come ha spiegato Adriana Scamporrino. spesso, i titoli vengono modificati per attrarre i lettori e migliorare le vendite, sacrificando così l’integrità del significato originario. È il caso, per esempio, del celebre romanzo di Harper Lee, il cui titolo originale To Kill a Mockingbird è stato tradotto in italiano con Il buio oltre la siepe. Questa versione italiana, pur mantenendo una certa evocatività, si distanzia notevolmente dal significato letterale del titolo originale, più diretto e significativo nel contesto della trama del libro. La necessità di rendere un titolo più accattivante e coinvolgente per il pubblico italiano ha prevalso, a discapito della fedeltà al testo originale, inoltre il riferimento al “tordo” non sarebbe stato colto dal pubblico italiano, essendo un uccello che si trova esclusivamente in America.
Un altro esempio discusso durante il laboratorio è quello del romanzo Cecità di José Saramago. La traduzione italiana ha abbreviato il titolo originale portoghese, Ensaio sobre a cegueira (“Saggio sulla cecità”), eliminando la parola “saggio” per paura di allontanare potenziali lettori. Come spiegato dalla docente, il termine “saggio” avrebbe potuto trasmettere un’impressione errata, facendo pensare a un’opera troppo accademica o impegnativa. Questa scelta, però, finisce per amputare parte del significato originale del titolo, che suggeriva una riflessione filosofica e più profonda sulla condizione umana.
Il secondo motivo, meno evidente ma ugualmente importante, riguarda le difficoltà di traduzione storiche, legate ai limiti del passato. La docente ha spiegato come in alcune epoche, quando le tecniche di traduzione non erano così sofisticate e precise come oggi, i titoli dei libri subissero alterazioni per via di passaggi intermedi tra diverse lingue. Un esempio emblematico è quello di Delitto e Castigo di Dostoevskij. Il titolo originale russo (Prestuplénie i nakazánie) sarebbe stato più accuratamente tradotto in italiano come Delitto e Pena, in quanto la parola “pena” rende meglio l’idea della sofferenza e dell’esilio del protagonista, piuttosto che il concetto di “castigo” che suggerisce un’interpretazione più morale o religiosa. L’errore deriva da una traduzione francese del titolo, dove la parola “châtiment” ha entrambi i significati, portando così a una traduzione imprecisa in italiano.
Infine, il terzo motivo trattato durante il laboratorio ha riguardato l’influenza crescente dell’inglese nella nostra cultura contemporanea. Sempre più spesso, i titoli vengono lasciati in lingua originale o sono adattati utilizzando termini anglofoni, a conferma di una tendenza globale verso l’uso dell’inglese come lingua franca, soprattutto nel marketing editoriale. Questo fenomeno risponde sia a esigenze di mercato sia alla volontà di cavalcare mode linguistiche, che talvolta rischiano di snaturare il significato originario dell’opera.
Adriana Scamporrino ha più volte sottolineato un concetto fondamentale: la lingua è democratica. Ognuno è libero di utilizzarla come meglio crede per comunicare, ma è altrettanto importante essere consapevoli delle scelte linguistiche che si fanno, soprattutto quando si tratta di traduzioni. Il titolo di un libro non è un dettaglio secondario, ma un elemento essenziale che racchiude il senso profondo dell’opera. Alterarlo senza un’adeguata riflessione rischia di tradire, almeno in parte, l’intenzione dell’autore originale. Anche laddove le motivazioni commerciali o pratiche impongano dei compromessi, è importante cercare di rispettare quanto più possibile la volontà e lo spirito dell’autore, anche quando solo presunta.
Durante questa edizioni del Catania Book Festival si è svolto l’incontro intitolato “Parole per resistere: tra attivismo ed editoria di genere” curato da Enrica Donzella in collaborazione con Open Catania. Il panel ha visto la partecipazione di figure autorevoli come Vera Gheno (scrittrice, sociolinguista e traduttrice), Dario Accolla (attivista per i diritti LGBT e saggista), Federica Alba Di Raimondo (mediatrice culturale) e Serena Maiorana (dottoranda in studi di genere). Questo dibattito, concepito come una tavola rotonda, ha affrontato temi di grande rilevanza come il linguaggio inclusivo, l’intersezionalità e i diritti, ponendo l’accento sull’importanza delle parole e del loro uso consapevole nel contesto politico, attivista ed editoriale.
L’incontro è stato inaugurato da Dario Accolla, che ha subito focalizzato l’attenzione sull’uso del linguaggio nei testi scolastici e sulla rappresentazione di genere all’interno di essi. Attraverso alcuni studi universitari, ha evidenziato come nei libri di testo sia ancora presente una forte divisione dei ruoli di genere: ad esempio, nel 100% dei casi analizzati, l’azione delle “coccole” viene associata esclusivamente alle madri, mentre nel 90% delle illustrazioni o descrizioni, le madri sono raffigurate intente a lavare i piatti e i padri a lavorare o aggiustare oggetti. Questo schema perpetua stereotipi di genere che influenzano profondamente la percezione delle giovani generazioni, contribuendo a cristallizzare modelli sociali ormai superati. Accolla ha sottolineato quanto sia cruciale, quindi, rivedere questi modelli e promuovere un linguaggio più equo e inclusivo, anche a partire dall’istruzione.
La discussione è poi proseguita affrontando l’importanza dell’inclusività anche nell’ambito della mediazione culturale. Federica Alba Di Raimondo, mediatrice culturale, ha portato l’esempio della comunità Rom in Italia, spesso relegata ai margini della società e vittima di stereotipi profondamente radicati. Ha spiegato come l’immagine del “lavatore di vetri” rappresenti una semplificazione riduttiva e dannosa per una comunità che, invece di essere supportata, viene sistematicamente ignorata o insultata dall’italiano medio. Il linguaggio, in questo contesto, diventa uno strumento potente non solo di esclusione ma anche di resistenza, ribadendo l’importanza di riconoscere e rispettare la diversità culturale nelle narrazioni quotidiane.
Serena Maiorana, dottoranda in studi di genere, ha poi approfondito la questione dell’uso delle parole nell’ambito della giustizia di genere e della violenza. Tra i temi trattati, ha posto particolare attenzione al fenomeno del cosiddetto “revenge porn”, termine che, come ha spiegato, è in sé problematico. La parola “revenge” (vendetta) implica una sorta di giustizia retributiva, una giustificazione che, però, non dovrebbe mai essere associata alla condivisione non consensuale di materiale intimo. Si tratta di un atto di violenza e prevaricazione, non di vendetta, e per questo è necessario trovare un termine che rifletta la gravità dell’azione. Si è poi fatto riferimento alla tragica vicenda di Tiziana Cantone, una delle più note vittime di questo fenomeno in Italia, sottolineando come il linguaggio possa contribuire sia alla comprensione che alla marginalizzazione delle vittime. Ha inoltre evidenziato l’ipocrisia con cui la società, e a volte anche il sistema giudiziario, tendono a non considerare queste donne come “vittime perfette”, quando non rientrano in determinati canoni morali. Si è parlato quindi del rifiuto da parte di alcuni docenti di includere Tiziana Cantone tra le vittime di femminicidio, perché non aderiva ai parametri della “vittima ideale”, ovvero una figura innocente e passiva, che non ha mai commesso errori o trasgressioni. Questo approccio denota, ancora una volta, una visione distorta e restrittiva del concetto di vittima, che si basa su pregiudizi morali.
In conclusione, l’incontro ha offerto una riflessione profonda sull’importanza delle parole come strumenti di resistenza e cambiamento. Attraverso l’intersezione di politica, attivismo e editoria, il dibattito ha sottolineato come il linguaggio possa diventare un veicolo potente di inclusione o esclusione, e come sia fondamentale prestare attenzione al suo utilizzo per costruire una società più equa e consapevole.
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