19 luglio 1992: perché il massacro di via D'Amelio? La storia e i risultati della lotta alla mafia dagli anni '70 al 1992.
Alle 16:58 del 19 luglio 1992, una Fiat 126 carica con 90 kg di tritolo venne fatta esplodere sotto la casa della madre di Paolo Borsellino. In via Mariano D’Amelio, persero la vita il giudice Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Fabio Li Muli ed Emanuela Loi (prima donna nelle forze dell’ordine a perdere la vita in servizio). Il massacro, unito a quello avvenuto a Capaci pochi mesi prima, non riuscì a cancellare quello che l’antimafia italiana aveva già costruito.
Prima degli anni ’70, pochi giornalisti e uomini delle Istituzioni erano caduti vittime della mafia. Si possono citare tre episodi: il primo nel 1893 con l’uccisione dell’ex sindaco di Palermo Emanuele Notarbartolo; il secondo nel 1909 con l’uccisione del poliziotto statunitense Joe Petrosino in visita in Sicilia; e, il terzo, con la strage di Ciaculli nel 1963 dove persero la vita 7 militari delle forze dell’ordine nel tentativo di disinnescare un’autobomba (peraltro, messa a punto per uccidere un mafioso rivale e non degli uomini delle istituzioni). Il mercato della droga e l’entrata in scena dei corleonesi avviarono un’escalation cruenta senza precedenti.
Nel 1970 scomparve il cronista investigativo del giornale “l’Ora” Mauro De Mauro. Nel 1971, la mafia uccise Pietro Scaglione, procuratore della Repubblica e nel 1977 assassinò Giuseppe Russo, tenente dei Carabinieri.
Lo scoppio della violenza si ebbe nel 1979. Riina, capo della famiglia dei corleonesi, nel tentativo di consolidare il suo potere, avviò uno spietato attacco a cosche rivali e allo Stato italiano. Tra il 1979 e il 1984, la mafia uccise oltre 500 persone tra uomini delle Istituzioni, giornalisti e mafiosi rivali: era il risultato della seconda guerra di mafia. Uomini illustri come il deputato Pio la Torre, il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e il giudice Rocco Chinnici persero la vita.
Per far fronte all’escalation, nel novembre del 1983 il Consiglio Superiore della Magistratura costituì il pool antimafia: un insieme di giudici dedicato alla lotta contro il fenomeno mafioso. A farvi parte: Angelo Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Leo.
Grazie alle numerose prove accumulate, il 29 settembre 1984 parti l’operazione che sarebbe poi stata ricordata come “La notte di San Michele“: un enorme blitz della polizia che portò all’arresto di 366 persone. A seguito dell’operazione, il giudice Caponnetto dichiarò sorridente: “Non ci troviamo più di fronte a diversi processi di mafia. Questo è un processo alla mafia. […] Siamo riusciti finalmente a penetrare nel cuore dell’organizzazione mafiosa“.
La mafia reagì al blitz attaccando violentemente la polizia. L’aggressività mafiosa si scatenò contro uomini come: Beppe Montana, Ninni Cassarà (massacrato da una raffica di proiettili davanti alla moglie) e il giovane 23enne Roberto Antiochia. La polizia di Palermo protestò: tra le dichiarazioni, si affermò che lo Stato era presente solamente ai funerali degli agenti. Furono minacciati trasferimenti di massa e il blocco del rilascio dei passaporti.
Contemporaneamente alle proteste della polizia, si aggiunsero le proteste del mondo universitario siciliano. Falcone e Borsellino notarono con piacere la parziale uscita dall’omertà della società siciliana. Il giudice Borsellino, in riferimento al crescente movimento antimafia siciliano, dichiarò con fiducia: “fanno il tifo per noi“.
Segnali tangibili di un cambiamento emergevano ovunque. L’arcivescovo di Palermo iniziò a usare regolarmente la parola mafia senza alcuna paura. Gli studenti manifestavano in piazza. Persino alcuni politici della Democrazia Cristiana, partito mai stato dichiaratamente contro la mafia, iniziarono ad esprimersi nettamente a favore della giustizia: il sindaco di Palermo della DC, Leoluca Orlando, eletto nel 1985, si schierò pienamente a favore dell’antimafia, costituendo il Comune come parte civile al maxi-processo.
Nel quadro di quella che sembrava una riscossa generale contro la mafia, nel 1986 ebbe inizio il maxi-processo. Tra il 1986 e il 1992 ben 3 tornate del maxi-processo (maxi-processo uno, bis, ter) si susseguirono portando alla formulazione di 360 condanne in primo grado, 19 ergastoli e 2665 anni di reclusione totali. Era iniziata la “primavera di Palermo“: un periodo di fioritura culturale che mirava ad emancipare la città di Palermo dalla morsa cruenta e feroce della mafia.
Nel 1991, vennero istituite la Direzione Investigativa Antimafia e la Direzione Nazionale Antimafia. La prima, un modello di cooperazione interforze istituito per combattere la criminalità organizzata in Italia; la seconda, una procura nazionale finalizzata esclusivamente alla lotta alla mafia. In questo modo, la mafia veniva finalmente trattata come un fenomeno unico, e affrontata con una visione specifica.
Quando, nel gennaio del 1992, la Corte di Cassazione confermò tutte le condanne del maxi-processo-uno Cosa nostra reagì con una nuova ondata di violenze. Alla strage di Capaci il 23 maggio 1992 fece seguito il massacro di via d’Amelio il 19 luglio 1992, commemorato oggi.
Le reazioni furono drastiche. Il 21 luglio si celebrarono i funerali degli agenti della scorta alla Cattedrale di Palermo. Furono inviati 4000 agenti di polizia con l’incarico di blindare la Chiesa e la folla, radunatasi in massa attorno alla Cattedrale, protestò con un impeto travolgente al grido di “Fuori la mafia dallo Stato”. Il 24 luglio si celebrarono i funerali di Borsellino nella chiesa di Santa Maria Luisa di Marillac, frequentata spesso dal giudice. Una folla di diecimila persone si radunò per rendere omaggio al magistrato.
Lo stesso giorno, il Consiglio dei ministri diede il via all’operazione “Vespri siciliani” autorizzando l’invio in Sicilia di 7000 soldati con il compito di contrastare la criminalità organizzare e svolgere funzioni di polizia. L’operazione contribuì alla cattura di numerosi boss mafiosi, tra cui l’arresto, nel 1993, del “capo dei capi” Totò Riina, principale responsabile dello stragismo mafioso. Condannato a 26 ergastoli, trascorse il resto della sua vita in regime di carcere duro fino alla sua morte nel 2017.
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