Peacekeeper: cosa fa e che ruolo ha questa figura nella politica mondiale? In occasione della Giornata Internazionale dedicata ai caschi blu, ecco un approfondimento sull'argomento con il contributo della prof.ssa Irrera.
Ogni anno, il 29 maggio si celebra la Giornata Internazionale dei Peacekeepers ONU, vale a dire le figure impiegate in contesti in cui si rende necessario l’avvio di missioni di pace. Infatti, gli stessi peacekeepers sono meglio noti al grande pubblico come “forze di pace” e rappresentano uno strumento messo a punto dalle Nazioni Unite per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, vale a dire il “peacekeeping”.
Per comprendere meglio qual è l’importanza di questa figura, quale contributo forniscono le donne e se i peacekeepers possono essere impiegati nell’attuale conflitto in Ucraina, ecco come ha risposto la professoressa Daniela Irrera, professore associato di Scienza Politica presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania.
Chi sono i peacekeepers? Queste figure, note anche come “caschi blu” per via del copricapo di colore azzurro che li contraddistingue, sono composte da personale di vario tipo. Infatti, ne fanno parte sia civili che militari e forze di polizia, i quali collaborano per l’ottenimento degli stessi obiettivi. La particolarità di queste figure è che non hanno bandiera, almeno non nel senso comune. Questo perché le forze di pace non rappresentano un solo stato, ma agiscono sotto la direzione dell’ONU, e per tale ragione hanno una composizione interna varia anche a livello delle nazionalità del personale.
Essendo impiegati in situazioni di conflitto per assicurare il mantenimento della pace, il personale dei caschi blu non svolge un ruolo privo di rischi. Infatti, secondo quanto dichiarato dalle Nazioni Unite, oltre 3500 membri delle forze di pace hanno tragicamente perso la vita mentre svolgevano la loro mansione. Ed è in onore del loro sacrificio che nel 2002 l’ONU ha deciso di stabilire una giornata internazionale dedicata a questa figura, per ricordare chi ha perso la vita e onorare chi continua a svolgere questo ruolo in nome della pace nonostante i pericoli che inevitabilmente corre.
Tuttavia, per comprendere meglio che lavoro svolgono i peacekeepers è prima fondamentale comprendere cos’è il peacekeeping. Letteralmente dall’inglese, questo termine significa “mantenimento della pace” e già il nome permette di comprendere meglio in che mondo vengono impiegati i caschi blu. Infatti, il loro ruolo è proprio quello di intervenire su mandato dell’ONU per mantenere la pace in aree politicamente “delicate” perché attraversate da conflitti di vario genere. Questo impegno ha permesso persino l’assegnazione del Premio Nobel per la pace ai caschi blu nell’anno 1988, in seguito al loro sforzo per il mantenimento della pace in vari conflitti dal 1956.
Rimane comunque fondamentale sottolineare che, seppur ideologicamente perfetto per le intenzioni che lo motivano, anche il peacekeeping necessita di un inquadramento, messo in pratica secondo diverse regole. Tra queste, per esempio, sono presenti i principi del peacekeeping, vale a dire:
“I caschi blu hanno rappresentato uno strumento rilevante per implementare il sistema di gestione delle crisi e la risoluzione dei conflitti creato all’interno del sistema di sicurezza delle Nazioni Unite, all’indomani della II guerra mondiale.
L’invio delle missioni di peacekeeping – non espressamente previsto nella Carta – si è consolidato come pratica, si è adattato alle dinamiche bipolari, ai cambiamenti intercorsi nella natura dei conflitti, ed ha contribuito alla “socializzazione” degli stati. Nel corso degli anni e attraverso la Guerra Fredda, le missioni sono diventate sempre più numerose e sofisticate, utilizzate da varie organizzazioni intergovernative, oltre che dall’ONU, ed impiegate in una serie di compiti non più e non solo strettamente militari, ma anche civili, quali il rafforzamento della rule of law, il monitoraggio di confini contestati, il training di forze di sicurezza locali. In molti contesti caratterizzati da guerre civili e società divise, le missioni sono intervenute anche per periodi di tempo molto lunghi (con successivi rinnovi del mandato) in parallelo ad una molteplicità di attori umanitari, dalle ONG alle agenzie ONU”.
Riguardo le missioni che possono essere indicate come esempio del lavoro dei peacekeepers, la professoressa Irrera cita “EULEX in Kosovo, UNIFIL in Libano, UNPREDEP in Macedonia, ARTEMIS in Congo, MINUSTAH in Mali sono solo alcuni esempi di missioni strategicamente rilevanti, politicamente contestate, ma che hanno contribuito – e alcune di esse continuano a farlo – a mantenere stabili gli equilibri locali spesso fragilissimi”.
“Come è facile immaginare, l’impiego delle donne nelle missioni di peacekeeping ha dovuto vincere notevoli resistenze e tabù. Uno studio del SIPRI del 2018 (Multilateral Peace Operations Database) ha comparato la composizione delle missioni ONU, UE e OSCE nell’arco di 10 anni ed ha rilevato che, in tempi più recenti, le donne occupano incarichi in tutti gli ambiti, militare, civile e di polizia, ma ricoprono solo il 6.6% dei militari dispiegati. Il contributo delle donne nei processi di pace, riconciliazione e promozione della democrazia – come sottolineato anche nella risoluzione ONU su Donne, pace e sicurezza – rimane cruciale, benché ancora limitato”.
“Il conflitto in Ucraina non è una guerra civile, ma un’aggressione militare da parte di uno stato contro un altro stato, combattuta da eserciti regolari nazionali, nonostante sul campo si ritrovino diversi attori armati di natura estremamente varia ed indefinita (dai battaglioni, ai mercenari, ai veterani delle guerre cecene). Una missione di peacekeeping risulterebbe politicamente non opportuna. Diverso è il problema dei corridoi umanitari e dell’assistenza ai rifugiati e agli sfollati interni che però non è un compito affidato ai peacekeepers“.
“Il sistema umanitario globale continua ad essere fortemente contestato ed attraversato da tensioni, inefficienze e scarso coordinamento. La guerra in Ucraina, inoltre, modificherà inevitabilmente gli equilibri di potere, le dipendenze dalle risorse strategiche e la gestione delle emergenze umanitarie. In termini assoluti, nessuna missione può essere considerata un reale successo, data l’estrema difficoltà dei contesti in cui si opera e la politicizzazione dei compiti svolti.
I peacekeepers rimangono tuttavia uno strumento fondamentale, che continuerà ad essere impiegato, probabilmente in modo molto diverso rispetto al passato, con compiti più civili che militari o nelle fasi post-conflitto e di peacebuilding. Il modello di pace liberale ha già mostrato i suoi limiti e la reale forza di questo strumento sta nella possibilità di adattarlo ai cambiamenti”.
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